La luna diventa piena stanotte alle 2.22 (sarà già domani, esatto)
[questa è la foto che apriva il numero zero: mi fa rendere conto che le mie piante di piselli quest’anno sono ancora indietrissimo]
Oggi questa newsletter compie quattro anni: il numero zero è partito infatti il 12 aprile del 2021 – e se ti va di (ri)leggerlo lo trovi qui. Buon compleanno, insomma, a Braccia Rubate, strano posto fatto di piante, semi, lune e di tutte le persone che la leggono, oggi per la prima volta, o assiduamente a ogni plenilunio e novilunio: auguri a noi, e grazie, sempre.
Per festeggiare, abbiamo pensato di mettere su un semenzaio, un posto dove seminare idee, consigli, legami e connessioni.
Cominceremo con una serie di incontri per scambiarci dei consigli – di libri, riviste, podcast, film e serie tv, canzoni, ma anche mostre, esposizioni o luoghi da visitare – attorno a un tema che cambierà di mese in mese; col tempo, questi consigli diventeranno una piccola biblioteca diffusa.
Il primo incontro si terrà lunedì 12 maggio, online, dalle 20.30 alle 21.30, e sarà dedicato al sotterraneo: radici, funghi, micelio, relazioni del suolo, ma anche tutto ciò che è nascosto, oscuro, fondamentale, misterioso, primordiale.
Tutte le informazioni sono qui.
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Questo numero speciale, che arriva con un giorno d’anticipo sulla luna piena e con un mese di ritardo sui tempi previsti, si chiude con un invito da parte del progetto montano Mia Majon, che avevamo ospitato già nel numero settanta,
Qui di seguito tre racconti che parlano, da prospettive differenti, di territori, e corpi, avvelenati; di consapevolezza, nuove narrazioni e riscatto; di rabbia, lotta e ricostruzione.
Il primo racconto è di Deborah Divertito, la sua è una storia di riappropriazione di alcuni spazi nella periferia Est di Napoli, dove ora ha trovato posto l’Orto Sociale Urbano di Ponticelli.
Il secondo è a cura di Alessandro Esposito, da tarantino che prima ha lasciato la sua terra e poi ci è tornato, parte dal mare, da una spiaggia stretta fra un arsenale militare e una delle zone industriali più tossiche d’Italia, per ricucire il rapporto con la città.
L’ultimo pezzo è di Alessandro Coltrè, che presenta Molecole – Storie di legami e di veleni, il podcast che ha realizzato con Rita Cantalino, partendo dalla prima volta in cui, da ragazzo, ha sentito nominare il beta-esaclorocicloesano, scarto di produzione di un pesticida che ha contaminato la Valle del Sacco in provincia di Frosinone.
Sono tre territori prima avvelenati e poi abbandonati dall’industria, tre storie che hanno dinamiche molto simili: la marginalità, la promessa di prosperità, alcuni decenni di sviluppo, e poi la dismissione, l’abbandono, i resti di cui non si occupa nessuno e che rimangono ad avvelenare suolo, acqua, aria, corpi. Ma sono anche storie di chi sta lottando per riavere il mare, per il diritto alla salute, per riprendersi e rigenerare spazi, ricostruire quartieri e comunità.
Qualche settimana fa è uscito per Guanda Tempo di ritorno. Una storia di clima e di fantasmi, l’ha scritto Ferdinando Cotugno, è un romanzo che parte dalla periferia opposta a quella di Deborah – da Ovest di Napoli, a Bagnoli, con l’Italsider – ma che contiene anche la storia di San Giovanni a Teduccio, dell’ex-Corradini e della Q8 che del mare non ha tolto solo la vista ma anche l’odore.
L’ex-Corradini è il cuore rivelatore del metodo capitalista: è una discarica, una ferita infetta, una rapina ai danni della comunità del quartiere, ma non è un errore. Le macerie di questa fabbrica non sono in queste condizioni perché qualcuno ha commesso un errore. Sono in queste condizioni perché tutto è andato esattamente come doveva andare. Questo abbandono è trasparente, ha una sua onestà di fondo. Quando non ci sono più profitti da fare, i detriti rimangono a carico di chi resta, il capitale non ha tempo per sistemare le cose, deve muoversi velocemente e romperle.
Ci siamo affidati a un’idea di progresso e di sviluppo che non prevedeva come esito la sostenibilità e nemmeno la felicità. Abbiamo sacrificato, insieme, il benessere del pianeta e quello dei nostri corpi, delle nostre teste, cuori, desideri, dell’anima, forse.
Quante correlazioni invisibili esistono tra le cause del riscaldamento globale tutto ciò che ci uccide, aumenta il reddito per una o più generazioni, ma priva l’esistenza di senso, riempiendola di una nostalgia impossibile da elaborare? Se almeno distruggere questo pianeta ci avesse reso felici. Se almeno fosse servito a qualcosa. Erano giovani esseri umani carichi di magia, percepita con gli strumenti e le personalità che avevano. Le radici dell’infelicità collettiva (della quale la mia famiglia un affidabile carotaggio) e quelle del riscaldamento globale (al quale la mia famiglia ha portato un infinitesimale contributo) sono le stesse, è lo stesso albero, lo stesso progetto di vita umana sulla Terra. Siamo stati carnefici climatici, e non siamo stati nemmeno carnefici felici. Finché saremo in un rapporto di distruzione reciproca con il pianeta che abitiamo, l’infelicità sarà l’unico esito possibile. Lottare contro la crisi climatica deve essere un programma politico fondato sulla felicità.
C’è una seconda storia in questo romanzo – oltre a quella che parla di acciaierie, carbone, camion e gasolio, del lato paterno della famiglia – che parla di abbandono delle campagne, di famiglie che per scappare da una vita, difficile e dura, da mezzadri, se ne vanno in città, si affidano al progresso, un progresso che capiscono solo in parte, forse per niente, ma a cui gli viene detto di credere.
È la storia dal lato materno in Tempo di ritorno, ma è anche la storia della famiglia di mio padre, e io non lo so se è andata così per colpa di quello strappo, ma mio padre è morto infelice. Mio padre è stato portato in una cittadina che stava vivendo il suo furioso sviluppo industriale, è stato preso dalle campagne e messo a un tornio della Massey Ferguson perché la sua vita fosse più facile. Qualcosa è andato storto, qualcosa lo ha reso infelice e stanco, qualcosa lo ha fatto sentire di aver fallito. A lui e ai miei nonni è stato detto di scordare tutto quello che sapevano – e sapevano poco, ma quel poco, in un mondo nuovo, non contava nulla –, che ogni cosa che erano capaci a fare non serviva più, gli è stato detto di credere a una promessa e quella promessa non è mai stata mantenuta.
Siamo tutti in vario modo responsabili e coinvolti nelle cause della crisi climatica, ma c’è una cosa che può accomunarci davvero: tutti siamo stati sfruttati, esauriti e traditi, dal capitalismo. Una cosa importante che credo possa fare questo libro è farci guardare verso questo tradimento collettivo, verso ciò che può accomunarci, verso una comprensione reciproca, che attraversa le generazioni. E lo può fare perché oltre a parlare di crisi climatica, storia dei combustibili fossili, dell’industrializzazione e di Napoli, è un libro che riesce a guardare all’umanità, a quella piccola porzione di umanità che è la nostra famiglia, ma anche quella composta da persone lontanissime – pure quelle persone che hanno cercato di andare più lontano possibile da ogni altro umano –, con amore e compassione, per le loro, e le nostre, debolezze, per la mancanza di coraggio e l’inadeguatezza, per i fallimenti e gli errori, per i sogni e per l’averci provato con quello che c’era.
E forse, forse, una forma estrema di fiducia in questa umanità – e di nuovo: nella piccola porzione di umanità che sono le nostre spesso disastrose famiglie – è pensare che, messe nelle condizioni giuste, le persone potrebbero essere felici. Potrebbero smettere di ferirsi a vicenda strette fra paura e stanchezza.
Combattere i cambiamenti climatici non è solo darci la possibilità di una vita più pulita, di aria migliore da respirare, di cibo più sano. È cogliere l’opportunità, gigantesca e liberatoria, di ricucire il mondo, di usare questa riscrittura come antidoto all’infelicità collettiva cronica e alla tristezza biologica.
Io a questa possibilità credo profondamente. Non perché sono una persona ottimista ma perché una possibilità esiste finché qualcuno ci crede, ed è tanto più concreta quante più sono le persone a crederci: le lotte possono convergere, possono trovare nuova forza e coinvolgere davvero tutte e tutti se il fine è la felicità collettiva, se riusciamo a mostrare, a rendere chiaro, che l’esito di una transizione vera e giusta, di un cambiamento radicale, può renderci meno tristi, meno soli, meno stanchi.
E perché le storie che seguono sono tre storie che dicono, ognuna a modo suo, che le persone, le comunità, stanno già cercando antidoti all’infelicità, e il percorso con cui si cerca di risanare un territorio contaminato è lo stesso che cura le comunità e le persone che le compongono. Ed è così che avviene il lavoro di ricucitura del mondo: non calato dall’alto – perché dall’alto sono arrivate le industrializzazioni, le promesse e le dismissioni col loro strascico di veleni – ma dalle comunità che si riappropriano, e si prendono cura, dei territori.
La periferia Est di Napoli, una miniera di esperienze di rigenerazione umana
di Deborah Divertito
L’esperienza che sto per raccontarvi è quella di una piccola oasi rigogliosa posta in un territorio per niente paragonabile ad un deserto, forse più assimilabile ad una miniera d’oro che però non sa ancora di esserlo. Si tratta dell’Orto Sociale Urbano di Ponticelli e del Parco Letterario realizzato all’interno dell’orto dalla cooperativa sociale Sepofà.
Ma prima di portarvi tra i vialetti del parco, vorrei farvi entrare nel contesto urbano in cui siamo. Ponticelli è uno dei tre quartieri della VI Municipalità della città di Napoli, periferia Est precisamente, sotto il Vesuvio, dove sorge il sole. Gli altri due quartieri sono Barra e San Giovanni a Teduccio, sede del Sepofà e di casa mia, fin da quando sono nata. Un territorio chiamato in campagna elettorale dall’attuale sindaco Manfredi “territorio di marginalità”. Sul momento qualcuno si è risentito, ma in effetti ai margini geografici, sociali ed economici ci siamo, eccome! Negli anni ha subito profondi cambiamenti ambientali e sociali: da contrada a vocazione agricola si è trasformata in polo industriale e logistico funzionale. San Giovanni a Teduccio, in particolare, ha vissuto gli anni d’oro delle fabbriche, quartiere operaio per eccellenza, sede, tra le altre, della Cirio, fabbrica di pomodori in scatola, di cui conservo una reliquia: un barattolo con su scritto il nome del quartiere sopra e di cui andiamo molto orgogliosi. Al pari di quanto scritto sulla figurina Panini di Antonio Juliano, storico capitano del Napoli nato proprio in questa parte di città, e che da dirigente portò Maradona nella città di Partenope, facendoli innamorare per sempre.
Ma ad un certo punto le fabbriche hanno chiuso e hanno lasciato il posto al più grande ammortizzatore sociale di fine anni ’80/’90: il contrabbando di sigarette controllato dalla criminalità organizzata. Così, la deindustrializzazione ha determinato: disgregazione del tessuto sociale, inquinamento ambientale, disoccupazione, dispersione scolastica. Stiamo parlando, perciò, di un territorio che ha subìto gli effetti negativi sia delle fabbriche che del loro smantellamento, basti pensare che San Giovanni ha il mare, ma non se ne sente l’odore, sovrastato dalla puzza delle vecchie raffinerie della Q8, da cui aspettiamo ancora la bonifica delle falde. Alcuni dati possono essere significativi: disoccupazione al 12,3%, disoccupati in cerca di prima occupazione al 24,2%, unità produttive meno di 5mila, con 23mila dipendenti. Molte di queste riguardano commercio all’ingrosso, trasporto, magazzinaggio o riparazione di autoveicoli e motocicli e non generano ricadute sul territorio (fonti Istat). Eppure, stiamo parlando della municipalità più giovane di Napoli, ma anche di quella con il tasso più basso di scolarizzazione e più alto di maternità precoce.
Ma la storia più recente vuole raccontare altro e noi cittadini e attivisti del territorio cerchiamo di farlo in tutti i luoghi e in tutti i modi possibili: l’arrivo della metropolitana, la riqualificazione del lungomare, la realizzazione di un polo di eccellenza in campo informatico e digitale con il campus universitario e la Apple Academy che ha portato un bel flusso di studenti e professori, anche stranieri, i murales di Jorit, il tessuto sociale florido e capace di portare centinaia di migliaia di investimenti nel campo della lotta alla povertà educativa, dell’empowerment dei giovani e delle persone con fragilità, della rigenerazione degli spazi pubblici, come le biblioteche e le scuole abbandonate.
La VI Municipalità ha potenzialità che possono essere recuperate e valorizzate per attrarre, ad esempio, flussi turistici: dalla risorsa dell’acqua a bellezze storico-artistiche dimenticate (ad esempio le ville vesuviane del Miglio d’oro). Vanta un attivo tessuto associativo che ha consolidato nel territorio pratiche educative con una forte impronta artistico-culturale capace di formare competenze e generare economia sociale.
L’orto sociale è situato in questo contesto, precisamente nel parco urbano F.lli De Filippo e nasce circa 10 anni fa, nel 2015 grazie all’intuizione della dottoressa Anna Ascione, responsabile del centro Diurno Lilliput, una struttura intermedia del Ser.D. a gestione pubblico-privato sociale che offre servizi riabilitativi e terapeutici a persone con fragilità che hanno sviluppato una dipendenza da sostanze, alcol o gioco d’azzardo. Era un’area abbandonata, completamente avvolta da rovi e sterpaglia, che nascondevano un patrimonio già terrazzato di cui si ignorava l’esistenza. Una volta ripulito, si è capito che da soli non si andava da nessuna parte, e allora è nata una vera e propria comunità attraverso l’affidamento gratuito triennale, su rotazione, dei piccoli orti a cittadini comuni, famiglie, associazioni, scuole e parrocchie del territorio. Adesso si contano più di 200 orti per altrettanti affidatari, oltre alle terrazze utilizzate per il laboratorio di ortoterapia e orticoltura realizzato dagli educatori del centro Lilliput, a beneficio dei propri pazienti. L’orto sociale è una realtà importantissima per il quartiere, meta di tanti curiosi e visitatori organizzati, soprattutto studenti di scuole primarie e secondarie e universitari.
Il Parco Letterario Lilliput
Valorizzare ciò che abbiamo per il Sepofà è una mission ormai consolidata da anni e farlo nel modo più coinvolgente possibile, con uno sguardo rivolto alle persone più fragili è per noi fondamentale per rendere questo mondo migliore di come lo abbiamo trovato, per cui abbiamo realizzato il Parco Letterario Lilliput. Si tratta di un progetto finanziato dall’8per1000 della Chiesa Valdese, realizzato dalla cooperativa sociale. Se.Po.Fà, in partenariato con l’associazione Art33-Cultural Hub e Dal Sociale che ne ha curato la comunicazione. La realizzazione del Parco Letterario Lilliput è stata un’esperienza importante di forte integrazione su un duplice livello: tra istituzione pubblica ed enti del terzo settore e tra i beneficiari del centro diurno Lilliput con il resto della comunità territoriale. Il progetto è durato sei mesi, ed è iniziato con un laboratorio di scrittura creativa con trainer esperti e incontri con importanti scrittori napoletani allo scopo di esplorarsi emotivamente partendo dai cinque sensi.
I testi scritti durante il laboratorio sono stati incisi su installazioni in legno al cui interno si possono ammirare disegni fatti a carboncino, realizzati dai partecipanti durante una masterclass di disegno con l’artista tunisino Ahmed Ben Nessib. Le installazioni artistiche sono 11 cubi di legno su cui sono incise le traduzioni in napoletano degli scritti: la scelta del napoletano è dovuta ad una riflessione fatta con i partecipanti in quanto il dialetto è considerata la lingua delle emozioni, dell’istintività, dei sentimenti. La facciata superiore è in plexiglass, per poter ammirare i disegni posti all’interno dei cubi, fatti a carboncino, ognuno legato al testo inciso. Il percorso parte dall’ingresso principale e termina all’apice dell’orto in cui è installato un ultimo cubo su cui è scritto “Cogli l’attimo!” e al cui interno è inserito uno specchio, invitando il visitatore a guardare se stesso.
Il Parco Letterario, tuttora visitabile, ben si inserisce in questo contesto come buona pratica di rigenerazione urbana, di condivisione degli spazi e di promozione di momenti di comunità e di socializzazione e di attrattore culturale in questa parte periferica della città. Al momento, il Sepofà organizza visite guidate all’orto e al parco letterario grazie ad un’altra progettualità, finanziata sempre dall’8permille, che ha dato la possibilità di formare delle guide narranti tra i giovani del territorio e di dare loro una borsa lavoro.
Se vi ho incuriosito e avete voglia di scoprire questa parte di mondo, venite a trovarci. È l’unico modo concreto per sostenerci!
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Deborah Divertito, napoletana classe ‘81, criminologa, lavora presso il centro diurno Lilliput e presso La Casa dei Cristallini al rione Sanità con minori a rischio devianza. È presidente della Fiera del Libro di Napoli “Ricomincio dai Libri”, fondatrice della cooperativa sociale Se.Po.Fà, porta avanti progetti culturali e di rigenerazione sociale a Napoli Est.
Autrice di Partenope, Plurale con Angelo Orefice (Marotta&Cafiero, 2024), Antonio Juliano, l’uomo nato due volte (Garrincha edizioni, 2025) e Napoli 2020 (Coppola Editore, 2022).
Guardare Taranto attraverso il mare: per un’epistemologia marina
di Alessandro Esposito
Ero approdato lontano dalla musica e il mare lavava continuamente la sabbia con le onde, che si arrotolavano e si disfacevano col rumore del suo respiro. Lavava le mie impronte, lisciava i sassi: se potessi guardarlo, ascoltarlo nei pomeriggi, laverebbe via i miei pensieri più inutili, e solo gli scogli di come sono resterebbero.
Salvatore De Rosa, Le date del mare non finiscono
Salvatore De Rosa non l’ho mai conosciuto. Eppure, per tant3 di noi rappresenta un punto di riferimento. Deve essere stato una di quelle persone che sapevano incarnare in modo immediato sentimenti e desideri di intere comunità. Così, ho imparato a ritrovarmi in lui, a ritrovare noi in lui. Mi sono riconosciuto nelle sue parole, nelle storie di tant3 sorelle e fratelli, e, soprattutto, nei desideri e negli immaginari di un mondo diverso e di una Taranto diversa, eppure uguale.
Questo mondo, però, non nasce dal nulla. La nostalgia dell’età del mare – direbbe Salvatore – fonda la nostra tendenza comune a scavare, a partire e andare oltre la devastazione riprodotta sul nostro territorio dalla militarizzazione, dall’industrializzazione, dai processi di espropriazione degli spazi collettivi. L’attesa che finisca l’età dell’uomo, l’età maschile, l’età dello sfruttamento e della solitudine imposta da poch3 su tant3, della migrazione forzata e della sottrazione, è per noi tarantin3 l’attesa che arrivi l’estate con la sua leggerezza, ma anche con la sua capacità di farci reincontrare sulle spiagge e nei luoghi che riempiono le nostre relazioni di sabbia, vento e sale marino.
È da quest’ultimo passaggio che voglio partire per pensare al ruolo che per noi tarantin3 ha il mare, di come esso costituisca per noi un modo per guardare Taranto, la nostra terra, “lavando via i pensieri inutili”. Da qui possiamo costruire un’epistemologia marina per guardare al nostro Sud tarantino politicamente e collettivamente.
Che cosa significa guardare Taranto attraverso il mare? Come possiamo riconoscere un’epistemologia marina nelle nostre esperienze? In che senso il mare lava via i pensieri inutili?
Nel giugno 2022 alcun3 di noi si sono ritrovat3 sulla spiaggia di viale del Tramonto a Taranto. Non è una spiaggia qualunque – ammesso che ce ne siano –, ma una spiaggia patrimonio comune per la comunità tarantina. Quando a giugno le notti cominciano a divenire intollerabilmente umide la spiaggia di viale del Tramonto si popola di famiglie, ragazz3, più giovani e meno giovani. Su quella spiaggia ritroviamo chi c’è sempre e chi vive lontano la maggior parte dell’anno. A viale del Tramonto Taranto si ritrova nelle sue contraddizioni, nelle complessità della vita di ciascun*, che in quelle sere vengono lavate dal mare.
Viale del Tramonto ha un portato peculiare. La spiaggia guarda attraverso il mare l’intera estensione di Taranto che affaccia sull’omonimo golfo. Sulla destra, prima l’Arsenale Militare nuovo e poi i palazzi dei quartieri periferici lasciano man mano spazio al lungomare e al Borgo nuovo. Due ponti, come braccia, reggono l’isola della Città Vecchia tra il Borgo e il Porto Mercantile. E lì, a sovrastare quest’ultimo con il quartiere Tamburi, avanza l’intera area industriale con i suoi fumi, le luci e i rumori. La città è schiacciata tra l’Arsenale e la Grande Industria. Di fronte a questo quadro, Taranto, sulla spiaggia di viale del Tramonto, si ritrova e guarda allo spazio della sua vita quotidiana attraverso il mare che si frappone tra la vista e la città.
Quella sera di giugno ci siamo ritrovat3 in una ventina con l’intento di provare a risignificare le nostre esperienze personali in termini politici, guardando la città attraverso il mare, come facciamo nelle sere d’estate. Il laboratorio Toxic Bios ci ha permesso di condividere che cosa fosse per noi la tossicità nella nostra vita passata e presente, negli spazi della nostra città o negli spazi che ci hanno allontanato da essa.
Guardando Taranto dal mare, abbiamo costruito un’epistemologia marina. Il mare ha permesso di ripensare la tossicità delle nostre vite personali trasversalmente, lavando i pensieri inutili, dando importanza alla passività e alla violenza subite, e immaginando Taranto possibili a partire proprio dalla consapevolezza delle contraddizioni che viviamo. Le macerie e il dolore, collettivizzati da ciascun*, sono divenuti lo specchio per riconoscersi e per far cadere le maschere di una narrazione che ci ha abituat3 a guardare la nostra terra con gli occhi del Nord “progredito”, con l’odio e con il desiderio di una fuga necessaria.
A diciotto anni sono scappato da Taranto. Contavo ogni giorno, perché speravo non fosse quello in cui mi sarei ammalato. Sono stato costretto non solo ad abbandonare la mia terra, ma a farlo odiandola, trovando in lei tutto ciò che mi era stato tolto. Quando avevo diciotto anni, odiavo il mare. Quella sera di giugno, guardando Taranto attraverso il mare, abbiamo riflesso il nostro dolore nella rabbia, abbiamo lavato le narrazioni tossiche sulla nostra terra e sul nostro futuro, e per la prima volta abbiamo guardato a quella tossicità come al simbolo di tutto ciò che ci muove, che ci dice di pretendere una lotta di liberazione non solo a Taranto, ma ovunque.
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Alessandro Esposito è un attivista tarantino e ricercatore indipendente. Fa parte della Convocatoria ecologista di Taranto. In qualità di ricercatore indipendente, si occupa di pensiero decoloniale e di pensiero meridiano, con uno specifico focus sulla crisi socio-ecologica.
Spezzare e ricomporre legami: il racconto di una tossicità
di Alessandro Coltrè
Beta-esaclorocicloesano. Questa sequenza impronunciabile di sillabe è stata la mia prima storia di veleni e di legami, che anche è il sottotitolo del podcast Molecole, una serie pensata e curata insieme alla collega e amica Rita Cantalino per Fandango, A Sud e Valori.it.
Riuscite a pronunciarlo? Per dire beta-esaclorocicloesano senza intoppi mi ci è voluto più di un mese, per capire come raccontare la storia di questa sostanza ho passato gli ultimi dieci anni a condividere una domanda in tante assemblee pubbliche: come si spiega l’impatto di una tossicità?
La parola che apre questo testo indica uno scarto di produzione del pesticida Lindano, concorrente commerciale del DDT. È una sostanza che sfida il nostro patrimonio genetico provocando l’insorgenza di gravi patologie. È un inquinante che si è rivelato più stabile delle sigle aziendali che lo hanno prodotto negli stabilimenti di Colleferro. A pochi chilometri da Roma, e a poca distanza da casa mia, quel che resta della città operaia nata negli ‘30 del Novecento si trova per lo più nel letto del fiume Sacco, nella terra che circonda l’ex zona industriale e nel sangue di tante persone del territorio.
Nel 2009, al liceo di Colleferro, leggo il nome di questa molecola su un volantino di uno gruppo studentesco. Impaginato male, senza alcuna immagine, quel foglio A4 segna l’inizio del mio interesse per le questioni ambientali. “Nel sangue dei cittadini c’è un veleno, il beta esaclorocicloesano è stato trovato ad alte concentrazioni nei corpi di 800 cittadini”.
Qualche giorno dopo averlo letto mi ritrovo a urlare quelle parole fuori i cancelli dell’ospedale di Colleferro, insieme a un gruppo di studentesse e studenti, con un megafono che per più di dieci anni avrà il compito di amplificare il nome di quella molecola impronunciabile, i risultati degli studi epidemiologici sulla popolazione della valle del sacco e i crimini ambientali compiuti dal comparto chimico di Colleferro.
Un gruppo di giovani che suona l’allarme per salute pubblica e per l’ambiente in una cittadina dove una sirena scandisce il tempo in base ai turni del cementificio. Andare davanti all’ospedale della città, incatenarsi all’entrata e denunciare gli effetti dell’inquinamento industriale sembrava quasi un parricidio; un attacco diretto alle ragioni della fondazione di Colleferro, come se avessimo picconato e sradicato lo stemma e il motto della città: In laborae virtus. La consapevolezza di questa rottura rappresenta per me l’inizio di un nuovo legame con il territorio.
In Molecole - storie di legami e di veleni, proviamo a raccontare queste reazioni avvenute in posti che all’apparenza sembrano refrattari a qualsiasi cambiamento, evento o sollecitazione. Con Rita Cantalino, giornalista che ha attraversato i movimenti ecologisti campani, continuo a farmi quella domanda: come si racconta una tossicità ? Se ci avviciniamo nelle città e nei paesi che hanno ospitato il miracolo industriale italiano troviamo dei lasciti molto simili: cancelli arrugginiti, società fallite, fabbriche ridimensionate, veleni sversati nell'ambiente, sostanze tossiche finite nei corpi di chi ha contribuito a concretizzare il boom economico. Molte di queste città oggi rientrano tra i siti d’interesse nazionale (SIN) che lo Stato riconosce come zone contaminate dove è prioritario bonificare e risanare il territorio. Ci vivono circa 6 milioni di persone, molte delle quali finiscono anche nelle sorveglianze epidemiologiche per monitorare gli effetti dell’esposizione ai veleni dei poli industriali. Proprio come accaduto a Colleferro, dove dal 2005 a oggi più di mille persone ricevono informazioni dalla asl locale sui livelli di beta-esaclorocicloesano nei loro tessuti. Cosa sta accadendo nei loro corpi? Cosa sta succedendo nelle cellule umane dopo anni di convivenza con un prodotto di sintesi che è anche un interferente endocrino? Nel podcast proviamo a capirlo intervistando un gruppo di biochimici che studia i movimenti del veleno nelle cellule indagando le anomalie e l’insorgenza di patologie collegate al bio accumulo e alla persistenza di un inquinante finito nella catena alimentare dopo decenni di sversamenti. Nel racconto sonoro ho ritrovato la possibilità di far tornare i dati epidemiologici in un racconto divulgativo, salvarli in qualche modo dallo specialismo per metterli in una narrazione più grande, in alcuni casi carica di rabbia e di preoccupazione per parenti e amici ammalati. Del resto, quel giorno davanti all’ospedale la mia generazione ha capito il significato dell’espressione “zona di sacrificio”. La sfida, sia quindici anni fa, sia oggi con Molecole, è quella di superare la solitudine e l'atomizzazione che caratterizzano queste vicende. Il podcast è un tentativo di riportare a una dimensione pubblica l’impatto dell’inquinamento industriale. È nei corpi che si leggono le disuguaglianze sociali: l’esposizione alle tossicità non è un effetto collaterale che tocca tutti allo stesso modo. Anche questo l'ho capito a Colleferro: quella molecola impronunciabile è nel sangue di agricoltori e di allevatori che non hanno colpa se non quella di aver coltivato e mangiato i prodotti della propria terra. Come ricorda l’antropologo Fassin “la malattia stessa, nel caso dell'impatto tossico dell'inquinamento sui corpi, liberata dal riduzionismo biologico, diventa una realtà culturale, mostrando il modo in cui gli ordini sociale, economico e politico, con il loro intricato campo di forze, si imprimono in quello corporeo includendo la dimensione di genere” (Fassin 2014). Ma l’impatto con queste tossicità non è solo un trauma, è anche una concatenazione di lotte, di nuove prospettive e di possibilità.
Raccontare i disastri ambientali e le varie deflagrazioni sarebbe stato riduttivo. Così abbiamo scelto la strada indicata dalla scrittrice Svetlana Aleksievič nel suo “Preghiera per Černobyl”, un libro che non resoconta il disastro nucleare ma che parla del mondo intorno, di come si interpreta un evento che incendia ogni certezza.
Le molecole di sintesi raccontate nel podcast aprono una raccolta di storie orali che ci fanno scoprire università sindacali, saperi operai e l'esigenza di testimoniare la propria vicenda dentro un racconto più grande. Come ricorda Alessandro Casellato, storico e membro dell’Aiso (associazione italiana di storia orale) le raccolte di voci iniziano con “la curiosità per le vite degli altri” e ci fanno scoprire “la capacità delle persone di farsi storiche di se stesse”.


In questo caso, nel podcast Molecole, l’invito di Casellato ci ha fatto amplificare le voci di ex operai, di ricercatrici e ricercatori, di attiviste e attivisti che riaprono i cancelli delle produzioni chimiche per consegnare il loro racconto e per segnalare le conseguenze dell’esposizione alle nocività. “Io so solo che quando sono nato il lindano nel sangue non ce l’avevo. [...] Qua non possiamo neanche dire perdonali signore perché non sanno quello che fanno. No qui, lo sapevano!”. Racconta Italo Leone, ex operaio della Bombrini Parodi Delfino a Colleferro che a oggi è ancora una delle persone con livelli elevati di mercurio e di beta-esaclorocicloesano. Italo non è solo un paziente, e le sue analisi non sono soltanto una delle tante griglie di valore in un rapporto epidemiologico. La sua è una soggettività che partecipa a dare una lettura dello sviluppo industriale italiano. E se mettiamo insieme la storia di Italo Leone con quella degli operai di Porto Marghera, con quella degli attivisti della terra dei fuochi, con le lavoratrici e i lavoratori delle fabbriche di colore all’anilina di Cirié, scopriamo aggregazioni, movimenti inediti e inaspettati delle classi sociali impattate dall’industria chimica. Anche se raccontano di tragedie e sconfitte, le loro voci non hanno un timbro vittimista, ma un tono che si alza per lasciare e condividere denunce, ricordi di manifestazioni, diari personali, processi per disastro ambientale, quaderni di fabbrica, studi epidemiologici nati dalla rivendicazioni popolari. Così i legami di queste molecole di sintesi sembrano meno granitici. I responsabili dell’inquinamento pronunciabili: nomi e cognomi di dirigenti, diciture di aziende e di multinazionali vengono convocati dai racconti di chi ha subito la contaminazione. C’è chi, insieme ai barili tossici, desiderava smaltire anche queste storie di vita. E invece se le ritrova amplificate, un po' come fossero un ultimo atto di sabotaggio.
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Molecole – Storie di legami e di veleni è un podcast di Alessandro Coltrè e Rita Cantalino che racconta, attraverso la chimica, l’eredità dell’inquinamento industriale in Italia.
Alessandro Coltrè, giornalista, è nella redazione di EconomiaCircolare.com, si occupa di inquinamento industriale e di conflitti ambientali. Fa parte di Sveja podcast, la rassegna stampa su Roma che cambia ogni giorno. Insieme a Ylenia Sina conduce la rubrica Fratte, l'ambiente di Roma.
Feste imboscate per boschi infestati: un invito
a cura di Mia Majon


[Graphic design a cura di @rrebeccarosa_ | Font Credit: Trickster di Jean-Baptiste Morizot su Velveteen.fr]
19-21 aprile – LA SCHIUSA | semine collettive, fioriture condivise
La Schiusa sarà il momento culminante del programma di FESTE IMBOSCATE X BOSCHI INFESTATI, poiché lo abbiamo immaginato come l’occasione per provare a portare nel corpo - oltre che le celebrazioni stagionali - anche la relazione con il paesaggio.
Ci ritireremo insieme tre giorni nel guscio-rifugio che è Mia Majon, tra esperienze e pratiche dai tanti linguaggi, banchetti in festa, pasti condivisi e respiri grandi. Celebreremo il riposo, condizione primaria per introiettare l’energia utile per sbocciare. Festeggeremo il bosco e attraverseremo questa esperienza intervallando attività laboratoriali e attività con il corpo, ascolti introspettivi con momenti di condivisione.
Dentro a semine collettive e fioriture condivise, cercheremo un nuovo gesto, un nuovo nome, un nuovo inizio per un nuovo racconto. Nostro e - forse - anche di un gruppetto speciale di alberi. Vorresti schiuderti con noi?
Trovi qui il PROGRAMMA COMPLETO e qui il modulo per ISCRIVERTI!
Per questo plenilunio, e questo compleanno, è tutto.
Grazie, ancora per una volta, grazie.
Braccia Rubate torna con la luna piena del 12 maggio, per un numero di Sentieri a cura di Maria Claudia, e poi la sera per l’incontro sul sotterraneo.
Se ne hai voglia, scrivici a bracciarubatenewsletter@gmail.com per raccontarci del tuo territorio o solo per un saluto, oppure a ilsemenzaio.it@gmail.com per partecipare al primo incontro.
Buona tessitura.
Barbara
Auguri Braccia Rubate! E viva il Semenzaio, è un'idea stupenda!