La luna nuova arriva alle 19.55
Lo so, il titolo potrebbe sembrare vago e vagamente (appunto) sentimentale mentre invece questo numero sarà il più concreto possibile: cosa ha da insegnare la terra, se le prestiamo attenzione?
Lo raccontano Giacomo Sartori (a proposito di apprendimento, vale la pena seguire il suo sillabario della terra su Nazione Indiana), con un pezzo in cui definisce ciò che si può imparare dai piccoli orti, e Aurora Faletti, con il diario della sua esperienza di WOOFING (sai cos’è? eccone un’altra che puoi imparare oggi) all’azienda agricola Duipuvrun. Infine c’è una cartolina che arriva da una scuola della terra, nata per formare giovani agricoltrici e agricoltori: è la Scuola Emilio Sereni, a cura dell’associazione Terra.
In questo numero non ci sarà il consueto diario dell’orto (metto solo qualche foto di questo tempo strano in cui c’è sia il basilico fiorito che i cavoli nell’orto, con la prima brina al mattino), perché io ho tutto da imparare e niente da insegnare, perciò per una buona volta me ne starò silenziosa e in ascolto. C’è però un numero “extra” del diario che ho scritto per l’edizione speciale di Sentieri dedicata alla lentezza: se l’hai persa, la trovi qui.
Barbara
Ciò che insegnano gli orti
Il testo che segue è un estratto da Coltivare la natura. Cibarsi nutrendo la terra (Kellermann): ringraziamo l’autore e la casa editrice.
_
Se in un certo senso l’orto è l’elemento più arcaico dell’agricoltura, ne è nello stesso tempo quello più innovativo.
Daniel Faucher (1959)
Fin dall’antichità gli orti erano considerati cosa distinta dalle colture più quantitative. Erano situati a ridosso delle abitazioni, protetti da muri o siepi. Essendo di piccole dimensioni, e confinando con il luogo di vita, ricevevano analoghe attenzioni e protezione. Il legame non era solo fisico, ma anche funzionale, perché dall’abitazione ricevevano i resti alimentari, e le preziose feci umane. E proprio da queste ne traevano una grandissima fertilità, che nonostante l’uso molto intensivo si manteneva nel tempo.
Ospitavano ortaggi e piante da frutto, ma anche piante ornamentali. C’era quindi anche una più o meno grande valenza estetica, perché fin dalla preistoria l’uomo ha ricercato il bello, accanto all’utile, e in particolare negli spazi della quotidianità.
Nei paesi prosperi nell’ultimo secolo il divario che separa gli orti famigliari dall’agricoltura si è andato ampliando e cristallizzando, fino a diventare speculare opposizione. Tecnica, ma anche filosofica e morale. Le colture industriali sono vaste, o anche immense, e sono condotte con apporti massicci di capitali e materie prime, con un irresponsabile dispendio di energia. Le varie operazioni sono eseguite meccanicamente, eliminando qualsiasi tipo di intervento manuale. In ogni campo viene coltivata una sola specie, perché le macchine hanno difficoltà a fare distinzioni ed eseguire compiti complessi. L’operatore alla guida di costosi e sempre più imponenti mezzi meccanici, poco importa che sia un operaio agricolo o il proprietario, esegue le direttive che gli vengono impartite, apporta gli ingredienti chimici di protocolli prefissati. La sua esperienza non ha peso, gli si chiede anzi di non averne, di adeguarsi pedissequamente ai cambiamenti delle ricette che via via gli vengono fornite. Queste sono messe a punto da ditte internazionali e centri ricerca, spesso in collusione, hanno il suggello della Scienza, e il lustro della potenza finanziaria.
L’operatore guida macchine che ambiscono a essere sempre più autonome, non ha rapporti con i suoi vicini, non scambia conoscenze o sementi, se la sbriga da solo, muovendosi in un mare di numeri, di costi monetari. Gli ingredienti li prende dalle industrie globalizzate, i prodotti li dà all’industria della distribuzione. La terra per lui è un motore da lanciare ogni anno al massimo, utilizzando carburanti chimici. Un oggetto inanimato osservato a distanza, dall’alto, senza contatto fisico, senza empatia. Il suo fine ultimo è fare in fretta, in modo che il costo orario del suo lavoro venga suddiviso su più tonnellate di prodotti. Da lontano i suoi campi possono avere la bellezza della regolarità e della simmetria, ma se si passeggia per le capezzagne, l’assenza di cura e di attenzioni saltano agli occhi. E dominano i cattivi odori.
Pur aperti alla bellezza, gli orti non sono in genere particolarmente armoniosi. Sono anzi spesso scarruffati, in apparenza farraginosi, come lo sono sovente gli spazi naturali. Le esigenze dei vari vegetali hanno però la priorità, viene fuori guardandoli in dettaglio, e questa è forse la forma di cura suprema. Qualche volta sono maniacalmente ordinati, ma allora per testardaggine personale, quasi per spirito di contraddizione.
Le essenze presenti sono sempre molte, in assemblaggi tutt’altro che prevedibili, rispecchiando preferenze e gusti non standardizzati. Stanno fianco a fianco, premendo le une sulle altre, qualche volta convivendo. Ogni anno la disposizione cambia, ricalcando anche qui le precise esigenze delle singole piante, pena un completo fallimento.
Chi si occupa di un orto non smette mai di imparare, anche quando non ha un gusto particolare per gli esperimenti, nei fatti sperimenta sempre. Apprende dagli altri, da quello che vede in giro, da quello che fa lui stesso, da quello che succede per caso, dagli effetti dei capricci del tempo atmosferico, dai libri, da internet. Il suo strumento principale è l’osservazione, la sua principale guida è quella. Osserva ogni giorno le foglie, i fusti, le interrelazioni tra le varie specie, la terra.
Tutti i suoi interventi sono manuali, è sempre in contatto con i tessuti vegetali e con il suolo. È consapevole di portare la responsabilità da solo di ogni suo gesto, e la sola soluzione è stare sempre all’erta. La maggior parte degli strumenti che usa sono gli stessi che si impiegano da millenni, solo i materiali differiscono. Non può vedere le radici, ma non dimentica mai che sono essenziali, si immagina come sono e come stanno, le osserva e le tocca quando le estirpa.
Chi segue un orto sa che tutto quello che fa ha degli effetti, ma sa anche che certe cose non dipendono dalla sua volontà, la trascendono. Sa che può sbagliare, che certe volte quello che fa non funziona. Sa che ogni annata è diversa dalle altre, e le conseguenze sono di grande rilievo. Sa che deve aspettare, che un buon risultato deriva da un sottile equilibrio tra i suoi interventi, le indoli naturali dei vegetali e gli andamenti del clima.
Certo vuole risparmiare sugli acquisti di verdure, e questa può essere una motivazione fondamentale, ma non monetizza il suo lavoro, sa bene che se lo facesse i prezzi dei suoi raccolti risulterebbero fuori mercato, sfiorando in qualche caso i beni di lusso. Non ragiona solo in termini puramente monetari, il suo salario è anche la soddisfazione di veder crescere giorno per giorno i vegetali, di curarli, di raccoglierli, di mangiarli, di non spendere per comprare vegetali prodotti quantitativamente. Di regalare ad altri le eccedenze, che sono spesso abbondanti. Conoscendo i difetti e gli effetti negativi di quelli chimici, preferisce i concimi organici, sa che se usa fitofarmaci questi finiscono poi in parte nel suo piatto. Molto spesso conosce dei trucchi che sono altrettanto efficaci, e senza effetti negativi.
Gli orti famigliari, o insomma non commerciali, possono essere visti quindi come anacronistici relitti del passato, per molti versi patetici. E non parliamo di quelli di montagna, dove il periodo buono si riduce, la scelta dei vegetali anche, i terreni sono spesso assai poveri, e quindi il margine di manovra si stringe, le attenzioni devono essere ancora più grandi, la redditività del lavoro diminuisce ancora. Le statistiche ci dicono però che in Italia quattro milioni di persone si occupano di un orto. Con questi numeri è difficile considerarli solo un fenomeno marginale, e viene anzi il dubbio che richiederebbero forse molte più attenzioni.
Nei fatti, proprio con questo loro opporsi così radicalmente all’agricoltura industriale, che molti considerano l’unica possibile su larga scala, l’unica che può nutrire l’umanità, gli orti ci insegnano molto. Ci insegnano prima di tutto che coltivazione intensiva non è sinonimo di diminuzione progressiva della fertilità, e di devastazione ambientale, come siamo abituati a pensare.
Da sempre il problema delle coltivazioni agrarie è stato quello di trovare delle soluzioni per l’impoverimento dei terreni, in special modo causato dai cereali, al centro dell’alimentazione umana a partire dal Neolitico. Il maggese, vale a dire il riposo dei terreni, e poi a partire dalla fine del diciottesimo secolo le rotazioni con le leguminose, e le concimazioni organiche, avevano come finalità di mantenere costante la fertilità. Lo spostamento avvenuto nel ventesimo secolo verso delle concimazioni solo chimiche, se ha permesso di aumentare le rese, ha causato un impoverimento generalizzato e molto grave dei suoli, che alla lunga si ripercuote sulle rese stesse.
La peculiarità degli orti è sempre stata quella di produrre molto, spesso inanellando nella stessa aiuola più raccolti annui, senza intaccare le qualità dei suoli. Si dice spesso che l’agricoltura industriale sia molto intensiva, il che non è sempre vero in termini di quantità per ettaro (in molti Paesi, fuori dall’Europa, non lo è), mentre è vero in termini di quantità per unità di manodopera. Per il primo dei due aspetti, l’intensività di qualsiasi orto supera quella delle colture più produttive. Senza provocare impoverimenti o scempi.
Gli orti ci insegnano poi che, vista la quantità di fattori in gioco, è controproducente trincerarsi con testardaggine su degli schemi prefissati. È più saggio osservare e cercare di capire via via le esigenze e le dinamiche in atto, sforzarsi di indirizzarle senza opporsi frontalmente, minimizzando i danni diretti e collaterali. Ci insegnano insomma a ragionare, a essere attenti e umili, ad accumulare esperienza e conoscenze, rispettando il più possibile le tendenze naturali, sfruttandole per i nostri fini. Tutti elementi compatibili con un approccio scientifico, che può dare il suo grande contributo, si badi bene.
Gli orti ci insegnano che coltivare le piante vuol dire inserirsi nei complicati meccanismi della natura, che per quanto siano spinte le nostre conoscenze non riusciamo a spiegare integralmente, e men che meno a prevedere nei dettagli. Si pensi, per fare un esempio, a quel mistero che rappresentano le uve che danno nella data annata un vino di gran classe. La scienza ci aiuta a capire i meccanismi e le interrelazioni in gioco, e a tenere il più possibile sotto controllo il maggior numero possibile di fattori, ma nella realtà rimane sempre una dipendenza da questi e altri fattori, anche non prevedibili, e una grande parte di incertezza. Ci insegnano che nella natura c’è forse un nocciolo duro che ci sfugge, e che ci sfuggirà sempre.
_
Giacomo Sartori è un agronomo specializzato in scienza del suolo. Ha lavorato in vari paesi nell'ambito della cooperazione internazionale, e ha all'attivo molte pubblicazioni sui suoli e sui paesaggi alpini. Ha insegnato Agronomia generale all'università di Trento. All'attività scientifica ha sempre affiancato quella di narratore, gli ultimi suoi romanzi sono Sono Dio (NN, 2016; inserito dal Financial Times tra i Best Books of the Year), Baco (Exòrma, 2019), e Fisica delle separazioni (Exòrma, 2022). Coltivare la natura (Kellermann 2023) è il suo ultimo libro.
Sta sperimentando anche attraverso percorsi a cavallo tra scienza e arte, nell'ambito di residenze artistiche nel nord della Francia centrate sui paesaggi e i rapporti tra uomo e ambiente.
Un orto, una soma d’aj e Cesare Pavese:
woofing a Duipuvrun
È da quando sono piccola che voglio vivere in una fattoria.
Voglio i cavalli e le galline e il fango e lo so che è una visione un po' Pinterest ma passavo le estati dai nonni nell’orto e qualche semino dev’essermi rimasto dentro.
Comunque poi crescendo sono andata ad aperitivi boriosi, a riunioni con gente seria, alle call con gli squali. E poi ad un certo momento mi son chiesta dove fossi finita e dove fosse invece il mio fango. Dov’è il mio germoglio?
Vabbè la solita presa di coscienza a cui reagisco con lacrime, nichilismo e gelato. Ma poi scopro WWOOF.
WWOOF (world wide opportunities on organic farms) è un movimento globale che riconnette le persone alla terra attraverso l’agricoltura biologica. Praticamente è un progetto in cui lavori in un orto/azienda agricola/fattoria in cambio di vitto e alloggio.
È bello fare wwoofing chessò tipo in California o in Africa con tutte piante e animali esotici ma io figurati, mi conosco, e non è che me la senta proprio di andare in Tasmania e poi comunque prima è bene conoscere il proprio di paese, di terreno, di colline, no? Vero? Ecco.
Quindi scelgo un posto lontano quindici minuti da casa. Molto bene. Il posto è a Costigliole, si chiama Duipuvrun ed è un orto biointensivo che conoscevo perché organizza eventi pazzeschi al tramonto con menù di ortaggi e musica seduti sull’erba. Stefano Scavino è il papà di Duipuvrun, l’uomo carciofo, il contadino presso se stesso. Già mi vedevo lì, bella serena come un puciu a sporcarmi di terra, leggere sull’amaca e condividere parole minimaliste con questo ragazzo sicuramente zen e pure un po’ Bruno delle Otto montagne.
Molti wwoofer hanno già un progetto agricolo di cui vogliono ampliare i saperi viaggiando ma di certo non è il mio caso e questo per dirvi che tutti possono fare wwoofing e che anzi forse tutti dovrebbero farlo. Nella quotidianità ci ficchiamo in schemi rigidi basati su pigrizie e abitudini e siamo sempre meno elastici verso gli imprevisti, il destino, gli altri esseri umani e noi stessi.
E invece qui c’è da passare la giornata con uno sconosciuto in casa sua, sul suo divano, ricordandogli che c’è da comprare la carta da culo, cenando con i suoi genitori e i loro ricordi. È come entrare in una centrifuga ma vi giuro che poi non vi viene più da pretendere le Gocciole col latte a colazione perché avete solo gratitudine. Poi certo, ogni sette secondi potrebbe parlarvi di Cesare Pavese e dell’Hotel Roma e che un paese ci vuole ma ci si adatta.
Ho imparato a seminare, trapiantare, fare la cugnà. So cos’è una cucurbitacea, cos’è la kombucha e so che alla campana del mezzogiorno si pranza e poi ci si riposa.
Se dico che il bunet non mi piace mi vien detto “continuiamo così, facciamoci del male” ed è una citazione che non colgo. Adesso conosco l’importanza dei semi, quelli che ci si ricava da soli, quelli del peperone quadrato e del cardo gobbo. Adesso conosco la differenza tra la desertificazione e un suolo fertile che stocca CO2.
Se dico che la soma d’aj sul pane non l’ho mai mangiata mi vien detto “continuiamo così, facciamoci del male” ma ora la colgo: è Nanni Moretti.
Mi sono emozionata nutrendomi di mele e zucchine appena colte, io che col cibo ho fatto fatica per anni. Non avevo idea di come nascessero le cipolle, poi ho tirato, l’ho trovata e mi sono commossa. Pensa che scema. Ho abituato il mio corpo a nuove gestualità e delicatezze anche se le cariolazze di mattoni su e giù dalla collina non è che siano delicatissime ma ho sentito le mie gambe fiere e potenti. Stefano mi dice cosa fare e se ne va e non mi chiede se ho bisogno d’aiuto e voi direte eh ma che stronzo e ma invece no perché non gli viene proprio in mente che possa non farcela da sola e mi fa sentire autonoma e capace. Ho provato una pace liberatoria, meditativa, accogliente. Ho respirato.
Io non lo so come un agricoltore possa svegliarsi la mattina sapendo che il sole gli sta bruciando tutti i pomodori o che non c’è più acqua o che cimici, caprioli e colombacci ci fanno l’all you can eat con le sue insalate strafogandosi talmente che poi nemmeno riescono più a volare così gonfi e grassi e non me ne frega niente del body shaming, se lo meritano. Gli ingurgitano il lavoro, la fatica, tutto.
Ma quest’uomo carciofo ha la fiammella negli occhi. Il suo cuore pulsa perché ciò che fa ha un senso: scavalcare la grande distribuzione, sensibilizzare il consumo alimentare, la stagionalità, il giusto prezzo, ridare dignità agli ortaggi. E allora quel fuoco arriva anche a te, ti brucia e ti dà speranza.
Poi oh, io lo capisco che se per una vita compri le pesche all’Esselunga quando ti arrivano quelle del contadino ti sembrano brutte e piccole e pure care. Ma qua si tratta di nutrirsi con del cibo sano e non imbevuto del sangue di braccianti sfruttati.
Va bene. Dopo il pippozzo sociale vi dico che rilassata sull’amaca non ci sono mai stata e che Stefano non è come Bruno, è più tipo un podcast. Ma io in due settimane ho imparato leggende e antropologie sull’Astesana, sulle masche, Mario Soldati e Guido Piovene e Il sergente nella neve e quindi vieni papà castoro, raccontami pure una storia.
Mi sono commossa per le persone che ho visto aiutarsi silenziose anche se piene di cose da fare, per gli amici che danno una mano e per gli altri che preparano cena. È un flusso naturale in un luogo che crea aggregazione e confronto.
Comunque del mappazzone sulla mia vita non ve ne fate nulla però vi dico che io lo so che nessuno è davvero necessario ma progetti così secondo me un po' il mondo lo stanno cambiando. Già solo perché hanno cambiato me che sono arrivata lì stanca e disillusa, che a vent’anni non è un granché.
Non è che adesso dobbiam diventare tutti Thoreau ma se ciascuno parte da se stesso e si indaga e scoperchia nuove energie magari ci ritroviamo un po'.
Tipo io ora so che voglio riposizionarmi in tutto più ampio e smettere di accelerare e accumulare. Voglio gesti gentili, un bicchiere di vino e l’odore dei pomodori.
Voglio la mela con il vermetto e di certo non voglio il bunet che continua a non piacermi e continuiamo così, facciamoci del male.
_
Aurora Faletti è una coltivatrice letteraria.
Ha 22 anni e scrive reportage narrativi raccontando di libri, di natura, di sé e degli altri.
Questa è la sua prima esperienza di wwoofing ma di certo non l’ultima!
Scuola della Terra Emilio Sereni
C’è una cosa che dico sempre quando vado in giro a parlare di questo libro sull’orto (infilo in queste righe un ennesimo ringraziamento a chi ancora mi sta accogliendo e a chi ancora ha voglia di ascoltarmi divagare) ed è che gli zappaterra sono considerati come degli ignoranti, un po’ grezzotti e da cui non c’è niente da imparare se non vecchie storie nostalgiche dei tempi che furono, e invece, proprio ora che siamo di fronte alla crisi più grande e ingarbugliata con cui l’umanità abbia avuto a che fare, bisognerebbe prestare molta attenzione a cosa hanno da insegnare le persone che mettono le mani nella terra ogni giorno.
Ma per diventare agricoltori cosa bisogna sapere? Alla Scuola della Terra Emilio Sereni s’insegnano le basi per gestire un’impresa agricola – dal bilancio agli adempimenti burocratici, dalle politiche europee della PAC all’accesso al credito, dalla digitalizzazione alla comunicazione – in un primo modulo di lezioni online; gli elementi fondamentali dell’agroecologia come la gestione dell’acqua e del suolo, la comprensione dei modelli naturali (in una lezione con Lorenzo Costa che è stato nostro ospite nel numero 34) o la riproduzione delle sementi con la Rete Semi Rurali, in un secondo modulo di formazione direttamente in azienda (questa edizione si terrà presso la Cooperativa Agricola Capodarco di Roma); infine ci sarà un ultimo modulo di formazione sul campo: si dice negli ambiti più disparati ma stavolta è vero, la formazione si fa nei campi, sui terreni della cooperativa.
Al termine del periodo formativo i partecipanti potranno presentare il proprio progetto: i due migliori riceveranno un premio di 1500 euro a sostegno dall’avvio delle attività.
Le iscrizioni sono aperte ai giovani dai 18 ai 40 anni, tutte le informazioni sono qui.
–
Terra! è un’associazione ambientalista impegnata dal 2008 a livello locale,
nazionale e internazionale in progetti e campagne sui temi dell'ambiente e dell'agricoltura ecologica.
Emilio Sereni è stato uno scrittore, politico antifascista, partigiano e membro dell’Assemblea Costituente. Ha dedicato molta della sua attività alla storia dell’agricoltura e alla condizione sociale dei contadini italiani. Fra le sue opere Il capitalismo nelle campagne, La questione agraria e Storia del paesaggio agrario. Dedicare a lui una scuola della terra è un modo per indicare il preciso valore politico del tipo di agricoltura che si vuole promuovere.
Nota familiare: Emilio è il padre di Clara Sereni, autrice di quel libro stupendo che è Casalinghitudine.
Esercizio di fantastica: interrogazioni immaginarie
Non bisogna umanizzare gli animali, figuriamoci se vogliamo umanizzare batteri, funghi e altri organismi del suolo, ma negli esercizi di fantastica vale un po’ tutto: se andiamo a scuola dalla terra bisognerà anche che prima o poi questa terra ci interroghi. Cosa risponderemmo se un tardigrado, con il suo corpo mollaccione e paffuto e la sua faccia, diciamolo, un po’ da culo, ci chiedesse cosa stiamo combinando in superficie? E cosa sappiamo di quello che c’è sotto ai nostri piedi? Se quei circa 10 miliardi di organismi che vivono in ogni cucchiaio di terra che calpestiamo ci chiedessero come ce la stiamo cavando lì sopra? Cosa direbbe un urbanista che pianifica nuove strade e parcheggi a tutti gli abitanti del suolo che verranno soffocati da una nuova colata di asfalto se avesse il dovere di dare spiegazioni?
Anche per stavolta è tutto: grazie.
Braccia Rubate torna con Sentieri, l’edizione del plenilunio, a cura di Maria Claudia, il 28 ottobre.
Se è il primo numero che ti arriva, puoi curiosare fra i precedenti qui e da qualche numero anche qui.
Se ti va, scrivi a bracciarubatenewsletter@gmail.com: raccontaci tu cos’hai imparato dalla terra, o cosa hai capito di non conoscere abbastanza, cos’hai ancora da imparare e cosa ti incuriosisce.
Ciao!
Barbara