Holz è un’antica parola per dire bosco. Nel bosco ci sono sentieri (Wege) che, sovente ricoperti di erbe, si interrompono improvvisamente nel fitto. Si chiamano Holzwege. Ognuno di essi procede per suo conto, ma nel medesimo bosco. L’uno sembra sovente l’altro: ma sembra soltanto. Legnaioli e guardaboschi li conoscono bene. Essi sanno che cosa significa “trovarsi su un sentiero che, interrompendosi, svia”. Martin Heiddeger, Sentieri interrotti (traduzione di Pietro Chiodi)
A pochi giorni dall’Equinozio d’autunno, quando la natura inizia a cambiare, la luce a diminuire, ci si prepara a vendemmiare l’uva e si attendono le lunghe notti invernali, possiamo ammirare la luna piena del raccolto.
Per celebrare l’ingresso in questo periodo dell’anno, spesso associato al prendersi cura di sé, alla riflessione e al cambio di ritmo dopo l’incalzante energia estiva, ci incamminiamo sulla via della lentezza con un numero speciale di Sentieri.
Cominciamo dall’orto, con Barbara che ci consiglia una sciopero della velocità: “la lentezza come disobbedienza, come diserzione, come rifiuto, come presa di posizione” per riprenderci il nostro tempo, la nostra vita. Proseguiamo con tre ospiti che gentilmente fanno un pezzetto di strada con noi.
Ferdinando Cotugno rivendica il diritto alla lentezza convinto che in qualunque modo la si pratichi, sia un atto di comunità, a differenza dall’agitazione, sempre individualista. “La lentezza è una cosa che ci si concede a vicenda”, è il sintomo di una società sana.
Chiara Dallavalle ci porta in montagna, invitandoci a riscoprire, con un approccio diverso dal turismo mordi e fuggi, la grandiosità delle alture incontaminate. Non solo, grazie alla conoscenza del kundalini yoga, strettamente connesso al recupero di una mente lenta, cioè acquietata e stabile, ci racconta la sua esperienza come guida di piccole escursioni in montagna sostenute e arricchite dalla pratica della meditazione.
Gianvito Fanelli, creatore della pagina instagram Vita_lenta, che della vita lenta ha fatto un progetto apprezzato da migliaia di follower, ci racconta la sua idea: contenuti per chi è in cerca di un momento di quiete, di una piccola fuga dalla velocità, un attimo di bellezza o la semplicità di un gesto dimenticato.
Perché quello della vita lenta può rivelarsi un antidoto alla frenesia delle nostre giornate, al sovraccarico di lavoro, al vortice incessante dei nostri pensieri. Un passo verso il cambiamento, di qualsiasi tipo.
Dunque, buona lettura. Con calma.
Maria Claudia
Diario dell’orto
L’orto di settembre è, quasi ogni anno, l’orto che ti fa riflettere sul tempo e sulla lentezza.
Intanto, perché se hai abbastanza pazienza, se sai confidare nei tempi lunghi e nell’attesa, se riponi la giusta fiducia nelle piante dell’orto estivo le vedrai riprendersi dal caldo estremo di luglio e agosto e ricominciare a fiorire, e poi a produrre frutti, che matureranno più dolcemente, con calma, senza la fretta forsennata dei giorni più caldi.
Continuerai a raccogliere, quando ormai l’estate sconfina nell’autunno, pomodori, zucchine, melanzane e peperoni; continuerai a vedere quell’unica zucca – quest’anno è andata così: ce n’è solamente una, una zucca Butternut con la sua forma a fiaschetto, ancora gialla – crescere impercettibilmente giorno dopo giorno, virare dal verde chiaro al giallo pallido, con la speranza che diventi arancio, prima che qualche inconveniente capiti anche a quest’ultima superstite.
E poi perché settembre è un tempo di mezzo, indefinito, che rende chiaro che i nostri tentativi di tracciare confini dritti – ieri di qua, domani di là; estate fino a questo punto e autunno da lì in poi; passato alle spalle e futuro davanti – sono destinati a scontrarsi con una realtà dove il tempo è fatto di incessabile movimento degli astri mescolato all’imprevedibilità di vita e morte: una nebulosa di inorganico e organico a cui tentiamo goffamente di dare forma con un orologio e un calendario.
Sarebbe buffa tutta questa fatica profusa nel controllare il tempo se non facesse anche tanti danni, se non ci rendesse poi tutti così stanchi, così provati da un obiettivo irraggiungibile come rallentare la velocità con cui il nostro tempo si esaurisce, e insieme dall’accelerare senza senso le giornate, i gesti, le azioni, così da poter fare tutto, sempre, e sempre più in fretta, anche quelle cose che richiederebbero un respiro lungo, come la politica, i cambiamenti culturali, la cura e la pianificazione.
È un esercizio illuminante provare a fare qualcosa di minuscolo in modo lentissimo: preparare la caffettiera la mattina, per esempio. Abbottonare una camicia. Ogni bottone, pianissimo, diluendo il tempo, facendo caso all’asola, alle cuciture, al tessuto, alla differenza di tensione fra uno e l’altro, fra il bottone ancora cucito in modo saldo e quello che comincia ad allentarsi.
Me la sono sempre portata un po’ come una croce, su cui scherzare, sì, ma pure di cui dovermi giustificare, la qualità di essere lenta. Di far caso a troppe cose minuscole, perdendo tempo a pensarle tutte, per poi rimanere indifferente a quelle grandi. Sarà per questo che sono così affezionata al discorso di Alex Langer sul lentius, profundius e suavius, e lo cito sempre, e di nuovo, adesso: perché questa lentezza di cui vergognarmi invece può essere una via “per un futuro amico”, una soluzione alla crisi ambientale (sono ingenua? Sono ingenua), un rimedio alla stanchezza che ci portiamo appresso. Lentezza come protesta: uno sciopero dalla velocità, non sarebbe bello? Congiungere fra loro le proteste contro l’alta velocità Torino-Lione, contro la pedemontana nelle Marche, il passante di Bologna, contro ogni variante, ponte inutile, nuove strade ad alto scorrimento, contro la velocità delle produzioni, dei consumi, dei ritmi di lavoro, dell’attraversamento delle città e dei territori, dei respingimenti.
Lentezza come disobbedienza, come diserzione, come rifiuto, come presa di posizione, come occupazione permanente del tempo a nostra disposizione: è il nostro tempo, il tempo della nostra vita, è finito, ha un limite, è tutto quello che abbiamo, l’unica cosa davvero irripetibile, davvero finita, davvero nostra.
A settembre puoi decidere di perseverare nell’illusione di controllo sul tempo provandoci anche coi tempi dell’orto: cavar via tutto, e ripartire da zero per la nuova stagione, in anticipo sull’inverno, per arrivarci con una squadra di broccoli già in posizione; oppure puoi accomodarti fra le seconde e terze occasioni, ricostruendo un fitto di ingranaggi più simile al modo concreto con cui vanno le cose: il vecchio di fianco al nuovo, far posto alle piantine più giovani, che sfideranno l’inverno, negli interstizi fra una pianta di pomodoro e l’altra, che cacciano nuovi pomodori lentamente, uno alla volta e ogni volta come fosse l’ultimo, come le parole del discorso finale dei personaggi che muoiono nei film.
Che poi, broccoli e pomodori sono una delle consociazioni più fruttuose, ora, fuor di metafora: crescono bene vicini, si proteggono a vicenda da malattie e parassiti. Purtroppo i pomodori nulla possono contro le lumache, che sono il mio cruccio di ogni autunno: alle prime piogge torneranno, le sento già sovrapprodurre bava nell’attesa, e mangeranno i cavoli, le insalatine appena trapiantate, le foglie dei ravanelli. Queste piccole, mollicce creature che sbadatamente consideriamo buone e miti, innocue proprio per la lentezza di cui sono simbolo, possono distruggere senza pietà tutti i progetti di un’ortolana improvvisata come me: bisognerà ricordarselo, semmai inizieremo la rivoluzione della lentezza, di assoldarle nelle nostre file e di metterle in testa ai cortei, con le loro antennine dritte a fiutare l’aria e a indicare la direzione giusta.
La lentezza, un atto di comunità
Immagino che io debba parlare di botanica qui, ma non so niente di botanica applicata. Mi piace la geografia sociale dei boschi, e ne ho scritto, e promuovo la gestione sostenibile e la pianificazione responsabile del territorio e del paesaggio, ma poi se mi affidi un pothos devi pregare che lei si prenda cura di me e io di lei. Ogni mattina ci svegliamo, io e il pothos, ci guardiamo e ci diciamo: eh, siamo ancora qui, tu e io. La curatrice, creatrice e ospite di questa newsletter mi ha affidato dei semi e un giorno io ne farò un orto, ma è più probabile che io ci fondi prima una religione, pensiero magico, semi di Schrödinger: se non li pianto e non fallisco non li ho ancora sprecati, è come un Alveare immaginario, un gruppo di acquisto sperimentale basato sul multiverso, everywhere everything all at once. Magari lo faccio la prossima primavera, magari teleguidato via Google Meet da te, chi lo sa, io photos e fagiolini. Mi hai detto: scrivi di lentezza, sei ti va, si, mi andava, ma è andata che io la lentezza l'ho applicata, teoria e pratica, ci ho pensato ogni giorno senza scriverne, per quasi un mese, da luna a luna. Mettiamola così: la velocità è tutta teoria e preparazione (ti alleni quattro anni per correre nove secondi e mezzo), mentre la lentezza è pratica e pragmatica. Esercizio senza che nessuno ti spieghi come fare. La velocità si allena, la lentezza si sviluppa. Si, mi sto scusando con Braccia Rubate, e con Barbara, per non aver piantato i suoi semi, per essere stato lento nello spiegare cosa vuol dire essere lenti.
Mi occupo di clima e di azione per il clima (una forma così cretina e rigida, «azione per il clima», sembra il nome di un centro di calisthenics). Scrivo ogni giorno, come lo scrivono tutti, che l'azione per il clima deve essere veloce, rapida, aggressiva, e quindi il cronometro, la clessidra, tic toc, dieci anni per fare tutto, otto anni, sette, sei, prima di domenica, stasera, ora, mò mò. Perché dall'altra parte c'è l'inattivismo, l'ostruzionismo, la politica per il clima si fa contro chi lavora col favore delle tenebre (ho appena visto El Conde, capiscimi, tutti i liberisti sono vampiri) per trattenere, dosare, schermare lo scorrere del tempo, per interessi che sappiamo e di cui non ci occuperemo in questa sede, e quindi noi dobbiamo sollecitare, incoraggiare, scuotere lo scorrere del tempo, come un gioco di azione e difesa a basket.
E la lentezza? Diciamolo: abbiamo il diritto alla lentezza, l'ho letto ben espresso in un libro meraviglioso, che parla di femminismo e cetacei, si intitola Undrowned (Timeo). E mi sono chiesto: come si fa a essere lenti in un mondo che richiede urgenza per salvare il salvabile? Eh. Non lo so, ma il fatto base, da cui dovremmo partire tutte, è che se siamo urgenti h/24 ci bruceremo. E già ci sono abbastanza cose che bruciano, in questo mondo, noi dobbiamo decarbonizzare il nostro impegno politico, passiamo le settimane a combattere l'estrattivismo, saremmo imbecilli se fossimo estrattivsti con le nostre stesse energie, no? E quindi si, facciamo la pratica della lentezza, come le delfine e le foche monache di Undrowned ma senza sembrare deficienti, come quella influencer che praticava il riposo politico a Ibiza, e senza nemmeno essere come il cane del mio meme preferito, «it's fine» mentre la casa brucia.
Non ho la risposta su come si costruisca questo equilibrio, per questo ci ho messo tanto a scrivere, perché dovevo ammettere che io lo so che la lentezza è importante, ma non so come rivendicarla. So una sola cosa, che è questa: la lentezza è un atto di comunità. L'individualismo è agitato e la costante agitazione è sempre individualista, nelle comunità invece ci si riposa, perché se io prendo fiato qualcun altro si sta agitando per me. La lentezza è una cosa che ci si concede a vicenda, guardarsi le spalle e vegliare il sonnellino, non in tutte, sono nelle comunità sane, riconosci una comunità malata sempre dallo stesso indicatore: sono tutti esausti, a me vengono in mente i gruppi di ciclisti che scalano una montagna, ma sono sicuro che Braccia rubate abbia un mucchio di esempi botanici in cui questo succede, una pianta lavora per l'altra che si riposa, io che ne so, ma la prossima primavera, lentamente, pianto i fagiolini.
Il respiro della montagna
Ho avuto la fortuna di nascere in un luogo in cui il contatto con la natura era parte della quotidianità, qualcosa da toccare con mano appena fuori dalla porta di casa. Il Lago Maggiore è circondato da ampi e fitti boschi di querce, faggi e castagni, e appena a qualche chilometro da Verbania si staglia la cornice delle Alpi Lepontine, tra le quali svetta il Monte Rosa. È facile immaginare che il rapporto con la natura sia nato praticamente insieme a me. La mia prima camminata in montagna l’ho fatta prima ancora di iniziare a camminare, sulle spalle di mio padre, che a sua volta era stato iniziato al mondo alpino dai miei nonni. E io stessa ho imparato a muovermi in questa dimensione, quando, ancora bambina, consideravo i boschi e prati fuori casa come un immenso parco giochi da esplorare con gli amichetti. Nelle Alpi Lepontine l’antropizzazione è stata tutto sommato contenuta, e queste montagne hanno vissuto solo marginalmente lo sviluppo turistico mainstream, che ha invece profondamente segnato altre zone dell’arco alpino. Anche oggi restano territori frequentati prevalentemente da turismo locale, e questo ha consentito loro di preservare i propri ambienti alpini, mantenendo praticamente incontaminati una serie di ecosistemi altrove tragicamente compromessi dalla presenza massiva dell’uomo. Anzi in alcune zone, come ad esempio l’impervia Valgrande, si assiste alla cosiddetta wilderness di ritorno, ovverosia al riappropriarsi da parte di flora e fauna di porzioni di territorio prima abitate dall’uomo e poi successivamente abbandonate.
Facile perdersi in queste montagne. Non solo perdersi fisicamente, perché non appena si abbandonano i sentieri più battuti anche il semplice incontro con altri escursionisti si fa più raro ed è un attimo trovarsi a camminare soli, immersi nell’assordante silenzio della natura. Ma soprattutto perdersi in uno spazio e in un tempo che appartengono all’altrove. L’uomo con la sua ingombrante presenza si fa subito lontano, e, superato un primo senso di smarrimento, l’orizzonte si apre a scenari di bellezza infinita. Camminare in montagna per me è sempre stato questo: aprirmi alla relazione con il mistero, con l’elemento dell’inconoscibile che si manifesta nella natura incontaminata. Con la montagna, quella selvaggia e inaccessibile in cui si respira una vibrazione quasi mistica, si può entrare in relazione solo in punta dei piedi, in silenzio e con rispetto.
Per questo è per me impossibile accostarsi alla montagna con una modalità mordi e fuggi, tipica di un certo turismo di massa basato sul consumo veloce ed estemporaneo del territorio. La fretta e la frenesia sono nemiche di chi vuole conoscere davvero la maestosità degli scenari alpini più reconditi. Soltanto con pazienza e un pizzico di reverenziale timore possiamo aprirci alla scoperta di santuari nascosti di impareggiabile bellezza. Purtroppo nel tempo presente i ritmi lenti sono divenuti l’antagonista principale della modernità. Le nostre società orientate al progresso infinito non lasciano spazio per chi ama rallentare anziché accelerare. Oggi siamo tutti chiamati alla velocità, ad essere performanti nel più breve tempo possibile, e chi rallenta sembra perduto. Persino la gestione del tempo libero non concede tregua. Il tempo teoricamente destinato al riposo e allo svago viene immancabilmente riempito di cose da fare, persone da incontrare, luoghi da vedere, ed ecco che a volte al termine di una vacanza siamo più stanchi di prima, con la paradossale sensazione di non aver fatto abbastanza. Il tempo vuoto viene ironicamente definito tempo morto, come se il non fare nulla o il fare con ritmi decelerati sia di per sé sterile. Al contrario il tempo lento è prezioso. Consente alla nostra mente di far diminuire il suo flusso vorticoso allungando gli spazi di silenzio, permette al corpo di ammorbidirsi e di stare nel momento presente senza sforzo, con abbandono. In questo spazio vuoto tutto può accadere, e solo lì sta la vera pienezza.
Questa consapevolezza è qualcosa che ho imparato dalla pratica dello Yoga Kundalini, che mi accompagna ormai da diversi anni. Grazie a questa disciplina ho potuto sperimentare lo stare nell’immobilità totale contemplando la bellezza che mi circonda e alimentando la connessione con la vita che danza dentro e fuori da me. Questa intuizione ha arricchito il mio approccio al camminare in montagna, che piano piano è divenuto un tramite per stare in questo stato contemplativo. Il passo perfettamente sincronizzato con il respiro porta lentamente sempre più in alto, la mente sperimenta ritmi più morbidi e consente una fusione totale con il paesaggio. Attraverso il camminare, entriamo in una relazione attiva con l’ambiente attorno a noi, e l’esperienza dello spazio fisico diventa anche pratica meditativa.
Lo Yoga Kundalini è di per sé una pratica che si fonda sulla lentezza, e non è soltanto una lentezza del corpo fisico. Anzi a volte questa disciplina prevede cambi repentini e ritmi rapidi nell’esecuzione di determinate forme, e l’immobilità totale che caratterizza alcune meditazioni si unisce a movimenti molto dinamici e fisicamente intensi. Si tratta più di una lentezza della mente, che nella vita quotidiana sottostà ad un flusso incessante e vorticoso di pensieri, e che invece attraverso lo Yoga vogliamo riportare ad uno stato di quiete. Lo Yoga Kundalini lavora molto sulla sperimentazione di uno stato di vuoto, di silenzio, in cui i pensieri piano piano scorrono più lentamente fino quasi a dissolversi. Questo porta ad uno stato di grande tranquillità generale e consente di fare un’esperienza immediata e diretta del momento presente, senza essere trascinati dalle aspettative del futuro o dai ricordi del passato.
Da alcuni anni fa ho iniziato a portare la pratica dello Yoga Kundalini all’interno di brevi escursioni in montagna. La montagna è un ambiente straordinario in cui l’immersione in una natura rigogliosa e selvaggia ci permette di ricontattare il sacro in modo immediato. Non a caso in quasi tutte le tradizioni filosofiche e fedi religiose del mondo, coloro che sono alla ricerca di una via spirituale ad un certo punto della loro esistenza si ritirano su un’altura: la divinità che è in noi, spesso, fa sentire la sua voce proprio in quei luoghi. La montagna spalanca le porte al cielo nel suo slancio maestoso verso l’alto e al tempo stesso ispira un senso di sacralità, aprendo spazi del cuore altrimenti dimenticati. Praticare yoga in questi scenari consente di percepire in modo chiaro il canale che da sempre scorre tra l’infinito dentro di noi, la nostra anima, e l’Infinito universale, il Divino. Yoga è un termine sanscrito che significa unione, proprio perché attraverso le pratiche yogiche l’uomo intende superare quello stato di separazione tra sé stesso e l’Infinito, e ritrovare la connessione profonda che lega ciascun essere vivente con tutti gli altri. Oggi più che mai riconoscere questa connessione è fondamentale. Riscoprire l’interdipendenza non solo a livello biologico ma anche energetico tra tutte le forme di vita ci porta ad avere cura dell’Altro con la stessa intensità e impegno con cui ci prendiamo cura di noi stessi. Per questo nel tempo presente avere cura dell’ambiente significa essere consapevoli di essere parte di un tutto che vibra all’unisono, laddove nemmeno il più piccolo frammento di vita può essere trascurato. Non esiste più soltanto il mio benessere individuale, perchè lo stare bene del singolo è ormai strettamente interrelato con il benessere di tutta vita sulla Terra, e anche oltre.
Sembrano concetti astratti, lontani dalla vita quotidiana, ma in realtà la semplice esperienza di un’immersione nella natura incontaminata, lontano dagli stimoli del mondo urbano, già lascia affiorare questo legame. Quando siamo al cospetto di una natura imponente, quasi sconvolgente nella sua bellezza, la sensazione di far parte di un tutto si fa immediatamente presente, senza bisogno di filtri mentali. E qui davvero possiamo ritrovare il nostro posto nel mondo.
[Vita lenta in Campo Imperatore - video di Matteo D’Alessandro]
Vita lenta
Due chiacchiere con Gianvito Fanelli
Vita_lenta è un archivio di foto e video che ritraggono luoghi, persone e gesti, tutti caratterizzati dalla lentezza, da attimi in cui il tempo sembra fermarsi eppure espandersi per la qualità del momento. Il profilo instagram è ormai seguito da più di 500 mila follower, un traguardo che indica quanto in moltissimi, in tutto il mondo, siano alla ricerca di quella bellezza che si coglie solo se ci approcciamo in modo calmo e attento alle piccole cose alla vita.
Gianvito, come hai avuto l’idea? E perché hai scelto un account instagram come mezzo di comunicazione?
L’idea è nata per caso, dall’osservazione del centro storico di Conversano, la mia città, nell’estate del 2018. Ai tempi vivevo ancora a Milano e penso mi fossi dimenticato della bellezza delle piccole cose della mia città. Instagram era ed è tuttora il social che utilizzo di più. Mi è venuto naturale utilizzarlo, considerando anche che le stories erano ancora un mezzo relativamente “nuovo”.
[Vita lenta in Camogli - Video di Viaggiochemipassa ]
Che cos’è la lentezza per te?
Significa accettare che per fare le cose bene ci vuole tempo. Che la noia non va combattuta, ma accettata. Che molto spesso non è necessario correre da un luogo all’altro, ma va bene ciò che si ha.
Un consiglio per andare meno di fretta nelle nostre giornate?
Ritagliarsi dei momenti di lentezza, anche pianificandoli. Può sembrare un controsenso, ma mutuando una tecnica usata per migliorare la propria produttività (quella di allocare del tempo al lavoro) può essere utilizzata anche per allocare del tempo al cazzeggio, a una passeggiata al parco o al mare (per chi ce l’ha).
A proposito di impegni quotidiani e tempo a disposizione, come hai conciliato il tuo lavoro di designer con la gestione dell’account e dell’intero progetto?
In realtà oggi è difficile conciliarlo, infatti devo trovare urgentemente una soluzione. Diciamo che, in generale, cerco il più possibile di organizzarmi bene e fare le cose nel minor tempo possibile.
Si parla spesso di inquinamento acustico tra i motivi di stress del nostro tempo: i contenuti di Vita lenta invece hanno quasi sempre il loro suono originario, naturale, poco invasivo: il rumore del mare, il sibilo del vento, gli uccellini o del vociare lontano. Conta anche l’udito nella nostra percezione della lentezza?
Conta molto. I social sono sempre più rumorosi e aggressivi. Chi amministra le città, almeno quelle italiane, non dà grande attenzione all’inquinamento acustico. Una cosa che noto spesso nelle città è quando riesco a trovare spazi e quartieri silenziosi: per me sono sinonimo di qualità. E questo mi dice anche che è assolutamente possibile avere città più a misura di persona.
[Vita lenta in Arcosanti (USA) - video di Maurizio Villata]
Nei contenuti di Vita lenta, i volti delle persone, quando ci sono, hanno un’intensità che colpisce, la lentezza e le piccole cose trasformano la nostra espressione? E dentro di noi invece che effetto produce?
Le persone mi dicono che i video le aiutano a calmarsi. A me fa sempre molta paura sapere di avere questa sorta di responsabilità, ma del resto non ho inventato io l’ASMR e il movimento lo-fi beats che, in qualche modo, sono una diversa faccia della stessa medaglia.
Sei consapevole del benessere, seppure momentaneo, e del messaggio positivo che hai trasmesso a moltissime persone attraverso il tuo account?
Sì, perché ricevo spesso messaggi di ringraziamento. È molto bello, ma anche una forte responsabilità.
[Vita lenta in Cagnano Varano - video di Sara Sgrò]
Il prossimo numero di Braccia Rubate arriverà con la luna nuova del 14 ottobre, con il diario dell’orto di Barbara, gli esercizi di fantastica, le cartoline e gli ospiti. Se è il primo numero che ti arriva, puoi curiosare fra i precedenti qui e se vuoi scriverci del tuo rapporto tra mare e campagna o il tuo modo di comunicare con gli animali, ti leggeremo volentieri: bracciarubatenewsletter@gmail.com.
Maria Claudia
Tutto ciò che è squisito matura lentamente.
Arthur Schopenhauer
Un compendio di elogi alla lentezza. Bellissimo.