La luna è nuova dalle 00.37
Oggi è Santa Lucia, giorno più breve, notte più lunga (o quasi: il solstizio d’inverno arriverà il 22 dicembre) e, grazie alla luna nuova e in ombra, anche più buia. Condizioni perfette per alzare il naso e cercare le Geminidi, le meteore d’inverno.
Dedichiamo quest’ultima luna e quest’ultimo numero dell’anno ai nostri sentieri: abbiamo raccolto i cammini e i percorsi di amiche e amici di Braccia Rubate: ti va di fare ancora un pezzetto di strada insieme?
La via della mia anima
il sentiero di Caterina Di Paolo
Ho imparato a camminare in città. Prima di vivere a Venezia non sapevo cosa volesse dire camminare: Venezia mi ha costretta a farlo. Ho imparato a togliermi la giacca mentre cammino perché camminare fa venire caldo, e a scegliermi i vestiti in modo che siano comodi per camminare – dalle scarpe alla giacca, appunto: il mio parka ha una fibbia che posso usare per mettermelo sulla schiena rimanendo con le mani libere quando ho caldo. Da quando cammino ho spesso più caldo delle altre persone.
A Venezia camminare significa anche imparare a flirtare camminando, un’arte che sinora ho vissuto solo lì – flirtare camminando si può fare in una comunità di camminanti, e in una città che è a tutti gli effetti una scenografia erotica.
Venezia mi è rimasta nei piedi, nell’orientamento, nella postura. Non mi ha mai lasciata: Venezia è stata un’ortopedia. Un mio vecchio amore dopo anni che non ci vedevamo mi ha detto: «Rivedo il tuo passo un po’ marziale e ti riconosco.»
Da allora e ancora oggi se non cammino almeno due ore al giorno perdo il contatto con la realtà.
Ho imparato a camminare nella natura molto tempo dopo. E ho cominciato da qualcosa di molto vicino.
I miei genitori sono arrivati in Friuli per caso, mi sono sentita una fuorisede in Friuli fino a quando non me ne sono andata, fino a quando non sono uscita da casa mia e ho seguito la lunga strada dove sta. Casa mia è all’inizio di una via che si chiama Via della Filanda vecchia, perché appunto c’è una vecchia filanda che fa capolino. La strada continua e si inoltra nelle frazioni di Spilimbergo, tra vie asfaltate e non. Porta a due piccoli cimiteri e due piccole chiese e vari luoghi da cui osservare il Tagliamento. La strada ha spesso per terra dei frutti. Ho imparato che quando vedo dei frutti devo alzare la testa. So dove stanno le more, le prugne, i fichi, l’uva, le mele. So quando spuntano, so quando posso mettermi sulle punte e raccoglierli. Un frutto raccolto dall’albero è più buono: è gratis.
Ogni giorno quando sono a Spilimbergo vado a camminare sulla via della mia anima. È quella via. Saluto San Cristoforo, quello della chiesa di Baseglia. Lui camminava e raccoglieva pesi e per questo è cambiato. Da me è molto venerato perché i contadini lo pregavano ogni giorno, quando dovevano guadare il Tagliamento: pratica rischiosa, le persone morivano, non c’era ancora il ponte. Si pregava Cristoforo di riuscire ad attraversare la grande acqua. Lo faccio anche io quando lo vedo, lo saluto e gli mando un bacio.
La via della mia anima fa una grande curva. In lontananza si vedono sempre le montagne. Da vicino ci sono delle case cantoniere, una è abbandonata. C’è la vecchia ferrovia che un giorno ho seguito tra gli sterpi e mi si sono riempite le gambe di graffi. C’è il ghiaione per scendere sul fiume. Su quel fiume un giorno ho incontrato un gattino denutrito e ora viviamo insieme, si chiama Sergio Mattarella perché è bianco.
Un paio di anni fa ho deciso di cominciare da quella via per camminare tre giorni in Friuli. Il Cammino di San Cristoforo. Ho visto boschi di liane fittissime, frutta per terra, le montagne, un daino in un prato, il fiume maestosissimo dall’alto e amico da vicino, ho sentito l’ipnosi del camminare come mai prima. L’ipnosi del camminare è forse l’esperienza che mi ha cambiata di più. Sono finita in un bosco che sembrava chiudersi su di me, farmi parte di un grandissimo respiro pulsante e un po’ spaventoso, un grande organo. Ho messo il piede su tante pietre instabili. Mi piace fare l’esercizio di equilibrio di camminare sulle pietre nei ruscelli, trovare la maniera di attraversare le acque. Mi piace sapere che ho un coltello con me e non usarlo.
Quando cammino so che posso essere felice.
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Caterina Di Paolo è illustratrice, autrice, grafica e coordinatrice editoriale.
Escursionista da divano
il sentiero di Letizia Sechi
Lo confesso: sono una grande camminatrice, ma solo dal mio divano. Favoleggio di gite ed escursioni e non pratico mai queste fantasie. Per i sentieri, poi, ho una vera ossessione. Le mie prime foto, da ragazzina, raffiguravano quasi sempre strade sterrate, meglio se in collina, con un po' di curve: "un tipico paesaggio inglese", come dice Bert di Mary Poppins, concludendo il suo disegno sul marciapiede con un colpo di gesso a tracciare un sentiero. Sarà per questo che se disegno una casetta, come quelle dei bambini, davanti ha sempre un sentierino?
Questa mania mi porta tutt'ora a collezionare libri di mappe, a preferire storie e romanzi che iniziano con una cartina: potrebbe essere una delle ragioni per cui amo il fantasy. Per estensione mi affascinano gli esploratori e le esplorazioni, e tutti gli avventurosi che percorrono sentieri sconosciuti. Mio padre, quando era più giovane, era un escursionista. Ricordo che preparava le sue uscite con le carte dell'Istituto Geografico Militare: stese per terra a me sembravano immense, con quei fitti grovigli di righe a cui volevo dare un senso: curve isoipse, corsi d'acqua e poi strade, sentieri, mulattiere, e ancora confini, muri, muri a secco... non sapevo ancora leggere, eppure quei segni mi parlavano, facevano lavorare la mia immaginazione a gran velocità.
I sentieri per me hanno l'odore della macchia mediterranea: lentisco, ginepro, rosmarino, malva. Sono quelli che mi accompagnano quando sono in Sardegna, e che mi hanno avvolta sul sentiero Rilke, a Duino, vicino Trieste, a picco sul mare, e mi hanno fatto pensare quanto è incredibile il modo in cui i profumi ci facciano sentire a casa.
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Letizia Sechi è content strategist, content designer e writing coach.
Una scia piccola e profonda
il sentiero di Sara Gamberini
Quest'anno ho percorso moltissime strade e mi sono messa in cammino perché ho girato parecchio per presentare il mio libro. Il sentiero che prende un libro è sempre molto misterioso, non si sa mai bene cosa aspettarsi ed è infinitamente (sì, infinitamente) meglio non aspettarsi troppo. Io il mio libro l'ho seguito, ho aspettato, ho corso, ho rinunciato, sono andata lì dove mi voleva portare e mi sono fermata quando si rifiutava di partecipare. L'ho molto ascoltato e onorato. Ho affinato l'istinto. Ho ricevuto affetto e ne ho dato molto. Ho avvertito mancanze, ho scovato tesori. Grazie a questo sentiero di Infinito Moonlit ho capito che è ancora una volta l'amore a fare la felicità di un libro e a fare la differenza. Solo l'amore. C'è molto amore in ogni libro, forse qualcuno non lo sa, forse a volte lo dimentichiamo. Prima di tutto l'amore di chi lo scrive, e poi l'amore dei lettori, fondamentale, la cosa che più conta in questo scambio, la più importante (lo sappiamo davvero?), chi scrive e chi legge, tutto qui, e poi prima ancora l'amore di chi decide di pubblicare il tuo libro, di chi lo edita, di chi lo promuove, di chi lo consiglia e lo vende, di chi lo presenta. È come prestare attenzione a un temporale in arrivo, o al vento, si devono cogliere i segni e prevedere, adattarsi. Il mio sogno è che accada un po' come quando nevica, il paesaggio da fiaba, i rumori attutiti, la felicità che irrompe prima di ogni pensiero, il silenzio che porta con sé la neve permette di guardare a poche cose per volta, le impronte sul bianco candido e angelico, i bambini sulla slitta, ecco questo è il sentiero che vorrei aver tracciato quest'anno anche se non è mai nevicato: poche cose per volta, le impronte mie e di altri, di chi c'era davvero, la scia dello slittino, una scia piccola e profonda ma di una profondità leggera.
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Sara Gamberini è nata e vive a Verona. Il suo ultimo romanzo è Infinito Moonlit (NN editore).
Il sentiero di Látrabjarg
il sentiero di Samantha Colombo
Se ricordo bene, esistono centinaia di parole in islandese per descrivere il vento. Ciascuna prende forma quando si arriva a Látrabjarg, il punto più a occidente dell’isola: un promontorio dei Vestfirðir, i fiordi dell’ovest, sferzato dalle raffiche e stretto tra le rocce; un lembo di terra proteso verso l’orizzonte.
Una canzone sembra risuonare da queste parti: è “Náttúra” di Bjork. Tra i suoi battiti irregolari, appare un faro dagli occhi avidi a indicare la fine della strada 612. È il segnale per incamminarsi lungo un sentiero, una linea di terra sfumata appena, a strapiombo sulla scogliera che precipita nel mare per centinaia di metri, dove una burrasca può spazzare via il sole all’improvviso. Il cammino è questione di spazio, perché solleviamo lo sguardo oltre i nostri piedi; è un atto di coraggio, perché ci troviamo in un luogo che toglie il respiro; è un gioco di istanti, perché in un attimo decidiamo se procedere, costeggiare il dirupo dove si infrangono i flutti e le pulcinelle di mare incastonano i nidi, oppure fermarci, abbandonare tutto e tornare indietro.
Di una cosa sono certa: che si tratti del sentiero o della vita, pur nella tempesta, andiamo avanti, un passo dopo l’altro, sempre.
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Samantha Colombo è etnomusicologa di formazione, News & Editorial SEO Specialist ed entusiasta delle parole per professione. Dispacci è la sua newsletter.
Una risposta che cambia in continuazione
il sentiero di Michael Serazzi
C’è chi dice “la vita è un viaggio”. E in questo viaggio si percorrono tanti sentieri, anche più d’uno alla volta. Alcuni sono fisici, altri mentali. I sentieri della vita si intersecano, si sovrappongono, a volte sembra di non andare da nessuna parte e poi ti ritrovi esattamente dove vuoi essere. Per me c’è uno di questi sentieri che è più importante degli altri, perché li collega tutti. Possiamo accedervi quando vogliamo - o forse ci nasciamo sopra, ma dobbiamo rendercene conto. Io l’ho intrapreso negli anni delle superiori quando, nel mezzo di una crisi mi confrontai con una domanda. Estrema, non-sense se vogliamo. Ma averla visualizzata e sentita in modo profondo, viscerale, mi ha obbligato a camminare. È una domanda a cui è difficile rispondere, perché la risposta cambia in continuazione. E nessuno può suggerirtela. Eppure su questo sentiero ho imparato tanto, tante cose che rendono più agevoli gli altri sentieri della vita. Sto trovando i miei valori, le cose per cui voglio impegnarmi, le mie capacità, i miei limiti; ho imparato che siamo tutti diversi e unici, che non vorrei essere nessun altro al di fuori di me.
Non mi illudo che sia sempre facile, e non voglio sapere come andrà. Io cammino. Sul sentiero della conoscenza di me stesso, alla ricerca di “chi sono?”, cammino.
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Michael Serazzi si occupa di agricoltura e clima, è un attivista di Terra! associazione di promozione sociale.
Sasso del Lupo
il sentiero di Francesca Matteoni
Proseguo oltre, salendo dove il crinale si riapre al sole e alla valle e la strada diventa uno sterrato fino al bosco. Ci sono due ingressi: uno largo e ben visibile, che conduce direttamente al Prataccio, e uno nascosto, che si inerpica fra le rocce e la ginestra e poi sparisce nella boscaglia. È la seconda la via che conosco dall’infanzia. Me l’ha mostrata mio padre quando venivamo a cercare more e lamponi e il suo racconto l’ha riempita di invenzioni personali, che sono rimaste con me fino a oggi. Mitobiografia. Nell’ombra sopra di me appare un sasso sporgente, appuntito, la sua forma ricorda quella di un muso che guarda avanti. È il Sasso del Lupo. Grazie a una delle storie del babbo ha ritrovato la sua identità. Questo fanno i miti, anche quando vengono tramandati in uno stretto nucleo familiare, anche quando nascono nella mente di un ragazzino che da solo va tra gli alberi fino alla vecchia casa di un pastore, e poi diventano narrazione da consegnare alle figlie di quel ragazzino. I miti restituiscono. Immagino mio padre da bambino che arrivato sotto il sasso ci vede un lupo in agguato e corre più veloce che può per non essere raggiunto. Immagino che in quel momento, grazie alla paura, sia entrato nel ricordo del luogo e dei suoi abitanti, animali che ritornano come i lupi sulle piste. Tutto è vivo anche quando si ferma o muore. Anche se scompare. Oggi questo Sasso è uno dei miei custodi più preziosi.
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Francesca Matteoni (1975) è autrice di vari libri di poesia e prosa. Il suo ultimo romanzo è Tundra e Peive (nottetempo).
Il cammino Fleischmann
il sentiero di Alessandro Chiappanuvoli
[clicca sulle immagini per ingrandire]
Questo cammino non ha segnavia o mappe, ma solo un diario e le tracce che la storia di un ragazzo ha lasciato nelle persone che l’hanno letta o vissuta. Il ragazzo si chiama Luigi Fleischmann, è ebreo. È stato deportato con la famiglia da Fiume a Navelli, un paese vicino L’Aquila oggi famoso per lo zafferano. Siamo nel settembre del ’43, l’armistizio ha lasciato l’Italia nelle mani dei Nazisti. Ogni paese è buono per fare razzia, pochi per diventare quartier generale, come Navelli, che si trova nella parte sicura della Linea Gustav ed è usato per fare rifornimenti per il fronte. L’inverno e le montagne rallentano la liberazione, incattiviscono gli eserciti, gettano il seme per la nascita di bande partigiane.
Luigi ha 15 anni. Di giorno fa l’interprete per i nazisti, di notte compie azioni di sabotaggio con la Banda di Navelli. Alcuni nazisti sanno che è ebreo, ma tacciono, per fortuna di Luigi, in loro rimane un briciolo d’umanità.
Nel diario Luigi annota i mesi fino al giugno ’44: i soprusi, la paura, le bombe degli Alleati, i morti, le notti trascorse a costruire una liberazione di cui non c’è certezza. E racconta, Luigi, i suoi cammini, consegnando messaggi alle bande di paesi vicini, cercando un riparo sicuro per la sua famiglia, compiendo gesta di coraggio minore che non passeranno alla storia, ma che incideranno nella Storia, come il bombardamento inglese dell’aeroporto di Monticchio, l’armeria tedesca a pochi chilometri dall’Aquila.
Luigi scrive di suoi cammini tra Navelli, Civitaretenga, Caporciano, Bominaco, Opi, Roccapreturo, scenari di guerra e d’acerbo eroismo oggi diventati boschi, sparuti pascoli, zone di caccia o di tartufo; posti anodini che, attraversati dalle parole di Luigi, assumerebbero invece un altro valore: il valore del Valore. Parole come queste, che da sole incrinano lo schema bianco o nero della Storia che ci siamo dati per costruire, ancora una volta, il senso del Bene e del Male.
10 febbraio 1944
Papà viene chiamato in municipio: c’è il capitano Ehrig e il suo attendente Berger di passaggio, e vogliono salutarlo. E papà si sente raccontare da Berger una storia commovente, mentre il capitano Ehrig, fumando, rimane silenzioso. Berger è un pianista, e a Berlino aveva un collega, un ebreo («Come lei, signor Fleischmann»). Qualche settimana fa, andando in macchina con Ehrig, rimase in panne. E ad un tratto sentì che qualcuno lo chiamava col suo nome e lo abbracciava. Si accorse allora che era quel suo collega, ebreo di Berlino. Berger racconta che gli vennero le lacrime agli occhi, perché un ebreo, scacciato e perseguitato, abbracciava un suo ex-collega, in divisa nazista, e non gli muoveva alcun rimprovero. E si chiede, Berger, il perché di tutta questa persecuzione a morte, come se gli ebrei non fossero uomini come gli altri. Ehrig ascolta silenzioso. Non può dire alcuna parola, perché è un capitano, ma chi tace acconsente. Poi i due tedeschi ripartono. E papà torna a casa veramente commosso.
Da “Un ragazzo ebreo nelle retrovie”, di Luigi Fleischmann, a cura di Claudio Facchinelli (ultima edizione: Gaspari Editore, 2023). Foto di paesaggio dell’autore, disegni di Luigi Fleischmann, foto d’archivio della famiglia Fleischmann.
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Alessandro Chiappanuvoli è scrittore, poeta e reporter.
I germani
il sentiero di Ilaria Campodonico
Guardo la nostra foto. Mia madre sorride, lo capisco dai suoi capelli. Neri, coda bassa. È una ragazza, oggi sono più grande di lei. Siamo sotto la tettoia dove ascoltavo la pioggia, dove ho imparato a leggere: “agonismo”, “corsi per adulti”, “lezioni individuali”. La recinzione accanto, sulla quale mi arrampicavo per provare a stare in equilibrio senza mani, guardare in giù e provare le vertigini. Il mio sentiero del cuore è una casetta di legno rossa sotto la magnolia, circondata da pini bassi e oleandri che non dovevo toccare. Un albero gigante era cresciuto a Monteverde e io sono nata giocando su tre campi di terra rossa. La Chiesa accanto. Eri tu, papà, e zio e l’antico legame che ha accompagnato le nostre esistenze. Questa è una bella piazza, ci cammina una pupazza, ci cammina una pecorella che fa be be be. Il suono del colore, giallo, sfondo sottofondo. Dritto, rovescio, smash, battuta, volee. Per noi, me e mio fratello piccolo, era lo spazio magico degli zii, delle storie raccontate dagli adulti, di tappeti di palline da recuperare in posizioni impossibili, di chinotto e aranciata amara, di gatti e partite contro di te. E ricordi quella volta che ha nevicato?
A fine giornata, correvamo da te per un abbraccio. Io ti leccavo la faccia, sapevi di sale.
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Ilaria Campodonico è responsabile comunicazione e ufficio stampa per diverse case editrici e istituzioni culturali.
Sentiero della libertà
Bosco Martese – Il Ceppo di Rocca Santa Maria, Teramo
Sui monti della Laga c’è un sentiero che parte dal Ceppo e poi si biforca fra i faggi del Bosco Martese. Si chiama “Sentiero della libertà” perché queste vie erano battute dai partigiani durante la resistenza e proprio al Ceppo partigiani italiani, insieme a militari jugoslavi scappati dai campi di prigionia dopo l’8 settembre, combatterono contro i tedeschi.
Ma non amo questo sentiero per le battaglie quanto per il bosco – anche se questo prende il nome dal dio della guerra. Amo questo sentiero perché ha accolto e nascosto dei disertori, dei fuggitivi, dei partigiani; li ha protetti e ha protetto la loro idea di libertà rimanendo comunque indifferente alla nostra storia.
Amo questo sentiero, e quello che porta al Lago dell’Orso, e anche quello che porta ai Faggi Torti: non metterò la foto, è troppo facile, dovrai camminare per trovarli. Sono faggi che crescono su un terreno soggetto a reptazione, un lentissimo slittamento verso il basso, una caduta al rallentatore – io sono almeno dieci anni che mi sento precipitare al rallentatore –, così il terreno slitta in giù, mentre gli alberi continuano a crescere, testardamente, verso l’alto, aggiustando il tiro millimetro dopo millimetro. Il risultato è un luogo magico, in cui ci sono alberi dai tronchi ricurvi alla costante ricerca di equilibrio, vorrei trovare una metafora degna ma una metafora degna non c’è: è la bellezza silenziosa e senza altri significati dei luoghi.
Barbara
Anche per stavolta è tutto: grazie.
Braccia Rubate torna il 13 gennaio 2024, con un altro numero speciale (e breve!).
Se è il primo numero che ti arriva, puoi curiosare fra i precedenti qui e da qualche numero anche qui.
Se ti va, scrivi a bracciarubatenewsletter@gmail.com: portaci sul tuo sentiero del cuore.
Grazie per questo altro anno insieme.
Buone feste, stai bene, cammina.
Barbara e Maria Claudia