Sasso del Lupo

il sentiero di Francesca Matteoni

D’estate, nel paese di montagna da cui provengo, esco per la passeggiata verso il bosco che chiamiamo il Prataccio. La camminata è breve, ma camminare per entrare in quel bosco significa mettermi sulle tracce di una storia che mi ricompone. Significa dimenticarmi in quella storia più forte e antica.

Nel dolore non riesco a condividere. Il dolore ci rende creature in cerca di linguaggio. Forse è questo che accade davvero nelle fiabe dove uno dei personaggi si trasforma in un animale: la metamorfosi è una risposta alla sofferenza, è l’abbandono di ogni lingua conosciuta per entrare in un corpo altro, che usa altri segni e gesti, che richiede un faticoso apprendimento. Ero una donna, ora sono un cigno. Dove c’erano dita crescono piume: non posso più afferrare e stringere, devo capire come usarle per solcare le correnti d’aria, tenermi al caldo nel gelo. Non sono più quello che conoscevo. Perdo la postura e il contegno, con meraviglia e terrore. Non riesco a osservarmi da fuori.

Supero l’ultimo edificio, una casa di pietra che è stata per molti anni un rifugio del CAI e ora è proprietà privata. Cammino svelta per arrivare qui, perché da ora in avanti la strada cambia: si restringe la striscia d’asfalto nella vegetazione, saluto la digitale bianca che si alza dai margini e le farfalle galatee che resteranno qui per tutto il mese.  Mentre cammino il vento è con me.

È mai stato altrimenti? Un respiro, un’improvvisa allegria, un ululato, il verso sconosciuto di un uccello nelle correnti. C’è un punto preciso nella mia camminata dove il vento indugia fra le cime degli abeti, per poi riversarsi verso la strada e la valle: mi fermo ad ascoltarlo, ondeggio con lui, mi ricordo del mare. Chiamo questo punto “il luogo del mare” e resto in silenzio con il mio, il nostro segreto, mentre le onde sciabordano fra i tronchi chiari degli alberi. Il vento gira, il vento mi chiama e poi mi abbandona, mi dice straniera, compagna, figlia, mi dice bentornata senza averne alcuna intenzione. Questa è la mia magia, qualcosa che proteggo e che mi fa sentire piccola e intera, perché sono l’unica a conoscere le parole del vento. Io, lui, la mia immaginazione. Le pagine di una poesia che ha cambiato la mia adolescenza. Fu mia madre a farmi leggere l’Ode al vento occidentale di Percy Bisshe Shelley quando avevo quattordici anni. Nel vento cominciai a parlare con il poeta a distanza di secoli. Pensavo, allora, che era possibile nella poesia comunicare con le cose più grandi di noi: non lontane divinità, ma elementi che costantemente modellano il paesaggio, costruiscono e sfaldano il presente. Che cosa diceva l’ode?

Fossi una foglia appassita che tu potessi portare;

fossi una rapida nuvola per inseguire il tuo volo;

un’onda palpitante alla tua forza, e potessi

condividere tutto l’impulso della tua potenza,

soltanto meno libera di te, oh tu che sei incontrollabile!

Potessi essere almeno com’ero nell’infanzia, compagno

dei tuoi vagabondaggi alti nei cieli come quando

superare il tuo rapido passo celeste

sembrava appena un sogno; non mi rivolgerei

a te con questa preghiera nella mia dolente

necessità. Ti prego, levami come un’onda, come

una foglia o una nuvola.

Diceva che a volte quanto abbiamo dentro ci sovrasta ed è innominabile.

Diceva: il mondo là fuori sa tutto di te.

Diceva: arrenditi al mondo, arrenditi al viaggio senza scopo del vento che spazza via e raduna, che devasta e ricompone. Lascia che il tuo pensiero sia solo aria che può uscire da te, invece che vorticare in sé stessa fino a toglierti la ragione. 

Proseguo oltre, salendo dove il crinale si riapre al sole e alla valle e la strada diventa uno sterrato fino al bosco. Ci sono due ingressi: uno largo e ben visibile, che conduce direttamente al Prataccio, e uno nascosto, che si inerpica fra le rocce e la ginestra e poi sparisce nella boscaglia. È la seconda la via che conosco dall’infanzia. Me l’ha mostrata mio padre quando venivamo a cercare more e lamponi e il suo racconto l’ha riempita di invenzioni personali, che sono rimaste con me fino a oggi. Mitobiografia. Nell’ombra sopra di me appare un sasso sporgente, appuntito, la sua forma ricorda quella di un muso che guarda avanti. È il Sasso del Lupo. Grazie a una delle storie del babbo ha ritrovato la sua identità. Questo fanno i miti, anche quando vengono tramandati in uno stretto nucleo familiare, anche quando nascono nella mente di un ragazzino che da solo va tra gli alberi fino alla vecchia casa di un pastore, e poi diventano narrazione da consegnare alle figlie di quel ragazzino. I miti restituiscono. Immagino mio padre da bambino che arrivato sotto il sasso ci vede un lupo in agguato e corre più veloce che può per non essere raggiunto. Immagino che in quel momento, grazie alla paura, sia entrato nel ricordo del luogo e dei suoi abitanti, animali che ritornano come i lupi sulle piste. Tutto è vivo anche quando si ferma o muore. Anche se scompare. Oggi questo Sasso è uno dei miei custodi più preziosi.

Resto sotto di lui, mi chiedo se mi riconosce, dove affonda la sua memoria di roccia e se c’è spazio per un essere dal tempo breve come sono io. Alzo la testa, aspetto il balzo che non avverrà mai, oppure avviene ogni volta nella mia mente. Faccio qualcosa come pregare, ma senza particolari riverenze. Non temo il suo silenzio. A volte risuona come la voce divina che infine decide di rispondere alla sofferenza di Giobbe.

Dov'eri tu quando gettavo le fondamenta

della terra?

Rispondi, se hai abbastanza conoscenza.

Dio parla della vastità della sua opera, ovvero il mondo. Dei tempi in cui il dolore di un singolo essere umano non era nemmeno immaginabile; della creazione e della chiamata per ogni cosa a essere, ogni montagna a erigersi, ogni oceano a scavarsi nella terra, a nutrirla filtrando in fiumi, acqua dolce, laghi, polle. Ogni stella a brillare ben oltre il tempo del suo corpo astrale. Cosa può essere il dolore di un singolo essere umano nelle epoche, nello spazio senza memoria, nel crollare e rigenerarsi di ogni universo? Cosa significa dire: “io esisto”?

Ciò che sembra indifferenza è piuttosto sapienza manifesta. Non puoi evitare il lutto, la disperazione. Ma puoi fidarti dentro una sapienza più grande della tua che si affaccia ovunque intorno, che sostiene anche quando non te ne accorgi.

“Lupo”, dico. “Lo sai, vero, che mio padre è cenere. Il ragazzino che correva, l’uomo-bambino, il ragazzo con il cane nella foto, l’inventafavole, Peter Pan, l’irresponsabile. Chi non sapeva crescere è infine andato nella morte. Lo sai, vero, Lupo. Lo sai che vorrei averlo impedito. L’ultimo e il primo dei fragili. Non posso cambiare questa cosa, vero Lupo?”

“Non devi. Piangi, se vuoi”, dice lui da qualche parte. Tutto quello che accade ha una sua giustizia ferale e inequivocabile. I morti non se ne vanno da nessuna parte, smettono di abitare i corpi e le menti che avevano: siamo noi, sono io a sentirmi mancare dei pezzi. Vengo qui perché è l’unico luogo che ha senso, perché per abbracciare i miei morti devo tornare nell’infanzia e intuire anche loro come i bambini che sono stati, anche se si tratta del babbo, soprattutto il babbo.

Un giorno, babbo, il Sasso del Lupo allungherà le zampe, annuserà il cielo, si lancerà nella caccia e ululerà nel buio. È possibile perché io l’ho già visto e l’ho visto con i tuoi occhi. Un giorno babbo questa scansione del tempo come ce la insegnano non avrà alcun senso. Volteggerò quassù come cenere e come cenere ti ritroverò negli invisibili, nel trascorrere, nei vuoti. Un giorno babbo io sarò vasta come le nostre infanzie e senza la gabbia delle parole: le sto lavorando per questo, affilandole come musi, come bestie perché mentre seguono la traccia dei sogni e dei perduti, sappiano infine dimenticarsi. Noi saremo il paesaggio. Nessuna colpa o dolore. Ma fino ad allora, ancora, attraverso con gratitudine le ombre, con gratitudine questo bosco che è casa. Aspettami.

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Francesca Matteoni (1975) è autrice di vari libri di poesia e prosa, fra cui il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019) le raccolte poetiche Ciò che il mondo separa (Marcos y Marcos, 2021) e Appunti dal parco (Vydia 2023); il libro Io sarò il rovo. Fiabe di un paese silenzioso (effequ, 2021) e il romanzo Tundra e Peive (nottetempo 2023). Cura pubblicazioni illustrate su magia e tarocchi per il progetto Vivida dell’editore White Star. Collabora alle riviste online L’indiscreto e Kobo. Il suo ripostiglio si trova qui.