La luna è nuova dalle 13.37 di ieri, mercoledì 29 gennaio.
La luna nuova di gennaio segna anche il capodanno cinese: è iniziato ieri l’anno del serpente, che vuol dire? Non lo so, qualcuno dice: saggezza. Qualcun altro: cambiamento, crescita, nuovi inizi. Io direi: ciao serpente di legno yin, buon anno nuovo anche a te, e buona luna nuova, mi piace la tua idea di iniziare l’anno adesso, invece del primo gennaio. È stato un mese lunghissimo, gennaio, saltiamolo, archiviamolo con l’anno vecchio e il passato e ricominciamo daccapo proprio ora, con il novilunio, via, secondo me è meglio.
Intanto, cosa c’è in questo numero: alcuni estratti da un libro particolare e difficilmente classificabile, raccontato dalla voce di un merlo e poi dalle tante voci di lombrichi, dorifore, formiche, ma anche di terre pietrose e pale eoliche, che descrivono la vita a Rosières-en-Santerre, nel Nord della Francia, e a Monno, nell’alta Val Camonica, scritto da Giacomo Sartori e illustrato da Elena Tognoli.
E poi un’idea vaga di speranza e di resistenza, che è affiorata guardando un documentario bellissimo, pieno di rabbia ma anche di una dolcezza profonda. Che c’entra con Braccia Rubate? Boh, forse niente, forse, siccome parla pur sempre di terra, tutto.
Rasoterra
di Giacomo Sartori e Elena Tognoli
Pubblichiamo due estratti da: Rasoterra (Il Cardo, Edolo), libro nato dall’esperienza di Terra Alta, la residenza artistica di Giacomo Sartori e di Elena Tognoli, che per circa un anno hanno lavorato insieme e a stretto contatto con la Comunità di Monno, un piccolo borgo situato ai piedi della salita che porta al passo del Mortirolo in alta Valcamonica. Il progetto si è svolto presso la sede di Ca’Mon, centro di comunità per l’arte e l’artigianato e luogo di scambio tra saperi.
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La voce monotona della pala eolica
Ho sempre adorato le tracce dei trattori sulla terra. Fanno pensare alle costole di un animale preistorico, o alle vertebre dei dinosauri stampate nella roccia.
Si potrebbe pensare che siano tutte uguali, visto il furore di uniformizzazione che ha contagiato gli agricoltori contemporanei, invece riescono ogni volta a stupirti con le loro imprevedibili particolarità.
Possono essere lievi e sensibili, o all’opposto rozze e implacabili, o anche arzigogolate e per così dire cerebrali, o stravaganti e quasi poetiche: non si può mai sapere in anticipo. Esattamente come una frase scritta non è mai identica alle altre.
Leggendole con attenzione si capisce quello che vogliono comunicare, quello che preferiscono tenere nascosto, quello che dicono tra le righe. Molti le considerano la cosa più terra terra che esista, invece spesso sono struggenti. Certe serate senza vento emanano un’atroce melancolia, un ardente desiderio di accedere alle verità nascoste, all’infinito. Quasi gridassero il loro desiderio di scapparsene chissà dove, chissà con chi. Secondo me bisognerebbe prenderle molto più sul serio di quanto si faccia. Bisognerebbe che i critici più rinomati si consacrassero alla loro esegesi: si scoprirebbero un sacco di segreti interessanti.
Per quel che mi riguarda so bene che non posso capire tutto, che molte sfumature mi sfuggono.
Sono abituata a avere a che fare con i venti, che arrivano e subito se ne vanno, senza lasciare tracce scritte. Quello che hanno da dire lo borbottano con i loro fruscii e le loro sferzate, punto e basta. Qualche volta penso che forse mi perdo i messaggi più essenziali delle tracce dei trattori, quelli più preziosi. Giro in tondo, invece di avanzare nella comprensione.
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La vocetta tagliente della radice
Gli umani sono esseri molto singolari, hanno la mania dell’ordine e della geometria. Si fanno in quattro per organizzare ogni cosa secondo i dettami della loro logica implacabile, e anche le forme devono adeguarsi alle stesse prescrizioni. Adorano i campi perfettamente rettangolari, i solchi degli aratri paralleli come rotaie, l’erba rapata a zero, gli alberi tutti uguali, i frutti identici uno all’altro, le strade asfaltate senza l’ombra di una buchetta o d’un filo d’erba. Passano e ripassano i loro erpici sulla superficie finché la terra non ha la minima irregolarità: non sopportano il minimo difettuccio. È davvero inspiegabile questo fanatismo per l’apparente regolarità e la simmetricità.
Se non vedessero solo la facciata – è la nostra salvezza – verrebbero a mettere ordine anche giù da noi, sotto i loro piedi. Farebbero avanzare le radici tutte dritte, come i soldati a una parata, obbligherebbero i lombrichi a scavare gallerie rigorosamente parallele, ognuna identificata con un codice a barre, raderebbero le barbe delle micorrize perché siano della stessa lunghezza, rinchiuderebbero i vari animali in gabbiette separate, ognuna con la sua etichetta e il suo QR Code. E metterebbero delle luci dappertutto, perché hanno la smania dell’illuminazione, anche quando non c’è alcun bisogno.
Per finire spargerebbero i loro prodotti per sterminare tutte le nostre amichette e tutti i nostri amichetti, a cominciare da quelli microscopici: la chiamano pulizia, o disinfezione, o pastorizzazione.
Fortunatamente non possono vedere un bel niente sotto terra, altrimenti per noi sarebbe la fine.
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Giacomo Sartori, agronomo e pedologo (specialista della terra), è autore di romanzi, l’ultimo dei quali è Fisica delle separazioni (Exòrma, 2022, finalista Premio Chianti). Nel 2023 ha pubblicato Coltivare la natura (Kellermann), con prefazione di Carlo Petrini.
Elena Tognoli disegna e scrive, il suo libro più recente è Mater baltica (Esperluète éditions, 2022; Edizioni La Grande Illusion, 2025).
Da alcuni anni esplorano assieme possibili vie per tradurre con le immagini e le parole la complessità del vivente.
Non c’è altra terra
No other land è un documentario prodotto da un collettivo israelo-palestinese (costituito da Basel Adra e Yuval Abraham, che sono anche i protagonisti, Rachel Szor e Hamdan Ballal) che racconta gli espropri delle terre in Cisgiordania, a Masafer Yatta, a Sud di Hebron.
A un certo punto, in una delle conversazioni che l’attivista e giornalista palestinese Basel Adra ha con il suo amico israeliano Yuval Abraham, il primo dice:
La speranza è un privilegio di chi può tornare a casa libero la sera, spostarsi o votare.
Facciamo così tante conversazioni, spesso a vuoto, sulla speranza, qui, in questa parte confortevole di mondo, dentro le nostre confortevoli vite, al riparo delle nostre confortevoli case, che sembra quasi colpevole sentire una vicinanza, una vicinanza nel sentire, con Basel Adra, con la sua mancanza di speranza, con quella stanchezza estrema che lo svuota e non gli fa sentire più niente, con il senso di inadeguatezza che ha nei confronti di suo padre e delle generazioni prima della sua, che gli appaiono molto più forti di quanto non sia lui.
Eppure in questa vicinanza c’è qualcosa che forse dovremmo tenere da conto: c’è un fondo comune nelle nostre aspirazioni, nei sogni, nella vita desiderata da questo ragazzo palestinese e dal suo amico israeliano, da un contadino di Masafer Yatta a cui viene distrutto il pozzo con cui irriga i campi, da una comunità a cui viene buttata giù una scuola dalle ruspe dell’IDF, e da me. Da me, qui, nella mia confortevole casa. C’è un desiderio di libertà e giustizia che abbiamo in comune e che, anche se non scordo nemmeno per un secondo le differenze della rispettiva quotidianità, mi fa sentire vicina, dovrebbe farci sentire vicini, a chi anche se non può permettersi la speranza, pratica una resistenza fatta di attaccamento alla terra. Ricostruisce le case, una pietra alla volta, anche se sa che potrebbero essere buttate giù ancora e ancora, perché di terra non ce ne è altra. E non c’è altra terra che le colline di Masafer Yatta, per questa gente, ma non c’è altra Terra per nessuno: qualcuno sta già buttando giù le nostre case, per quanto confortevoli, gli sta dando fuoco, le sta esponendo alle alluvioni e alle frane, l’intoccabilità di questa parte di mondo si è già sgretolata, abbiamo una resistenza tutta da imparare da un allevatore di piccioni della Cisgiordania, e da una bambina che va a verificare se almeno uno degli uccelli è rimasto vivo fra le lamiere schiacciate dalle ruspe, e dalle donne che arrotolano i tappeti delle loro case distrutte e poi li spiegano dentro una grotta in cui accamparsi, da chi ricostruisce di notte i muri spallati di giorno e contrappone la dolce irregolarità dei villaggi di pietra dei pastori all’aggressività delle file perfette e innaturali delle villette a schiera dei coloni.
Perché avevamo inteso l’attivismo come qualcosa per progredire, per partire dalle vittorie ottenute nei decenni passati e allargare i diritti, le tutele delle persone e dell’ambiente, praticare soluzioni pacifiche, e invece ci troviamo a dover difendere diritti apparentemente conquistati ma messi di nuovo in discussione, istituzioni che sembravano intoccabili e che cominciano a scricchiolare, misure ambientali messe in piedi con grande fatica che ora vengono smantellate, orrori che dovevano essere stati consegnati al passato e che invece risorgono, accordi internazionali, costati trattative lunghe ed estenuanti, rinnegati in un giorno.
Pensavamo di dover allargare le case dei diritti e delle tutele, di doverle solo rendere più solide, più accoglienti, più gradevoli, e invece toccherà puntellarle, ripararle, qualche volta ricostruirle daccapo. È chiaro che è un lavoro meno felice, più fosco, dai risultati molto più incerti, con probabilità di errore e fallimento molto più alte, con dei rischi aumentati in modo incontrollato, ma l’alternativa quale sarebbe?
La mancanza di alternative forse non suona bene come le parole meraviglia, bellezza, speranza, ma c’è qualcosa in questo attaccamento alla terra pietrosa e difficile da coltivare della Cisgiordania, e alla Terra come unico posto abitabile in tutto l’universo che conosciamo, l’unico che ci accoglie con tutti i nostri casini senza bruciarci o congelarci, senza schiacciarci al suolo o spararci via fuori dall’orbita, in questa inevitabilità, che se non è proprio speranza è comunque una chiave che ci fa mettere, in questa lotta, dalla stessa parte delle persone comuni, che vogliono cose comuni, semplicissime, le più semplici e chiare: la sicurezza di un riparo, la libertà di viaggiare e muoversi ma anche il diritto di restare, una scuola dove mandare i propri figli, una terra pietrosa da coltivare, e non dover più pensare che la speranza è il privilegio di qualcun altro.
Per questo novilunio è tutto. Grazie, come sempre, grazie.
Braccia Rubate torna con la luna piena del 12 febbraio, per un numero di Sentieri a cura di Maria Claudia.
Se ti va, puoi scriverci a bracciarubatenewsletter@gmail.com.
Buon anno del serpente, buon inizio, buona partenza, buone cose nuove: puoi ricominciare daccapo ogni volta che vuoi.
Barbara
La bellezza che esprimi nei tuoi commenti e’ la voce dentro me che parla!❤️✨✨✨
Grazie!