Sotto la luna piena di febbraio, detta anche “Luna della Neve”, proseguiamo sul sentiero intrapreso nel numero 52 Erbe, elisir e antichi rimedi naturali, per approfondire il mondo delle erbe e della loro raccolta grazie a Giulia Carlini che ci racconta con passione quella che un tempo era un’usanza, se non una necessità - e ora sia chiama foraging, un po’ come fare la maglia ora si dice knitting o fare il pane in casa baking - e l’uso delle erbe in cucina che rendono gustose molte ricette. Come nasce la voglia di andare per campi in cerca di erbe spontanee? Quali tesori nascondono questi vegetali un po’ dimenticati? Scopriremo moltissimo, ma soprattutto che la meraviglia è anche tra le erbacce.
E proprio alla meraviglia, da scovare ovunque, è dedicato il consiglio di lettura: un libro appena pubblicato da Nottetempo (che ringraziamo per l’opportunità di farvi leggere un estratto), tradotto da Federica Principi e arricchito dalla illustrazioni di Mini Nakamura: un inno alla natura che, tra piante e animali, non smette mai di sorprenderci, soprattutto se gli occhi che guardano, curiosi e incantati, sono quelli di una bambina.
Maria Claudia
Aimee Nezhukumatathil, di origini indiane e filippine, in Un mondo pieno di meraviglie. Elogio di lucciole, squali balena e altri prodigi ricorda molte atmosfere della sua infanzia, i campi del Kansas, le escursioni in Arizona o i paesaggi freddi dell’Ohio, invitandoci a prestare attenzione ad ogni creatura. La meraviglia è ovunque, dobbiamo solo riconoscerla; ha molto da insegnarci.
Un mondo pieno di meraviglie di Aimee Nezhukumatathil
Lucciola Photinus pyralis
Quando compare il primo sfarfallio di lucciola in una sera d’estate, mi vien sempre voglia di chiamare mia madre anche solo per dirle ciao. La bibliografia della lucciola è composta da un abito delicato ed elettrico, una minuscola fiamma che crepita nei fossi lungo le autostrade, e dalle elitre che ricoprono le ali posteriori dell’insetto e si sollevano come cuoio leggero, più duttili di quelle di qualsiasi altro coleottero. In volo è come una risata sguaiata, del genere che si palesa solo d’estate, col puzzo di grigliata che aleggia da qualche punto lungo la via e le labbra dei ragazzini del vicinato macchiate dello sciroppo dei ghiaccioli, le bocche spalancate per il brivido di una partita a pallone o ad acchiapparello.
Vedevo sempre le lucciole sulla strada verso casa a conclusione dei nostri viaggi in famiglia, al rientro nella zona rurale a ovest di New York. Mio padre adorava guidare di notte, per evitare il riflesso del sole e l’eccessiva calura estiva. Io e mia sorella ce ne stavamo sul sedile posteriore avvolte in delle coperte, separate da un enorme frigo portatile, e io non facevo che addormentarmi e ridestarmi da un sonno reso ancor più godibile dai piacevoli mormorii della conversazione tra i miei, lì davanti. A volte provavo a restare in ascolto guardando fuori dal finestrino, ma i lampi improvvisi dei fanali che ci sfrecciavano accanto non facevano che distrarmi.
Per un paio di settimane, ogni anno a giugno, nelle Great Smoky Mountains l’unica specie di lucciole in grado di sincronizzarsi tra loro si riunisce in Nord America per un’esibizione in pompa magna. Anni fa con la mia famiglia ci fermammo proprio in quest’area durante uno dei nostri memorabili viaggi in auto. Mio padre, avvedutamente, aveva parcheggiato la macchina lontano dal fianco, di un verde inverosimile, di una collina che si tuffava in una vallata cosparsa di trillium, ciliegi e viburni. E altrettanto avvedutamente aveva velato la nostra unica torcia con un sacchetto rosso, per non disturbare le lucciole, e l’aveva puntata soltanto a terra nel condurre sua moglie e le (non troppo interessate) due figlie adolescenti nell’intervallo blu scuro pochi attimi dopo il tramonto. Lo confesso, sulle prime avrei preferito tornare alla nostra camera d’albergo climatizzata – o in qualsiasi altro posto che non fosse un viottolo di ghiaia in mezzo al nulla dove il silenzio veniva interrotto di tanto in tanto solo dal verso di una rana toro. Penso però a me e mia sorella oggi, adulte e lontane in case diverse, e provo un’immensa gratitudine per tutti quei viaggi in famiglia grazie a cui abbiamo potuto trascorrere insieme del tempo all’aperto, passeggiando su questa terra.
Mia madre era sempre spossata verso il finire della vacanza, ma so per certo che ogni giorno libero dal lavoro e trascorso in compagnia della famiglia per lei era una piacevole rarità. Quanto mi mancano quelle giornate lente di vacanza e le notti ancor più lente, con lei che si prendeva tutto il tempo per scegliere una vestaglia a balze per noi e poi ridere degli scorci turistici visitati quel giorno o dei ninnoli da due soldi che avevo comprato io… Mi rimboccava le coperte fino al mento. I suoi capelli splendidi, scuri e mossi, col loro aroma di Oil of Olay e chewing gum alla menta, mi facevano il solletico ogni volta che si chinava per darmi il bacio della buonanotte. Soltanto durante quei viaggi intravedevo una tale tenerezza, le mute rassicurazioni che solo una madre sa dare alla figlia, mentre con le dita lei mi pettinava la frangia di lato. O al mattino, senza la fretta di far salire me e mia sorella su uno scuolabus e montare in macchina diretta al lavoro. Quando mia madre non ci sarà più, so già che mi aggrapperò a quella fragranza di menta e balsamo che per sempre assocerò alla bellezza e all’amore. Mi aggrapperò a quelle notti d’estate in cui correvamo – pur senza correre affatto – fino a casa. Proverò a fiondarmi di nuovo su quella Oldsmobile, come le crisope che ogni sera bisticciano con la lampadina sulla veranda di casa mia, a fiondarmi su quella che all’epoca era la mia piccola famiglia, così piccola da non poterla neanche definire uno sciame: una sorella, due genitori.
Sono cresciuta circondata da scienziati che lavoravano con gli zigoli indaco. Non c’è blu paragonabile al blu di questi uccellini, non c’è piuma più elettrica. Gli zigoli si orientano seguendo la Stella Polare, e all’epoca quegli scienziati provavano a trarli in inganno e fargli seguire una finta stella in una stanza buia. Ma spesso e volentieri quegli zigoli mica ci cascavano. Appena liberati, ritrovavano la strada di casa esattamente come prima. Gli zigoli la Stella Polare ce l’hanno impressa nella memoria, capiscono come rintracciarla già nella prima estate della loro vita e incamerano quest’informazione per utilizzarla ad anni di distanza, non appena imparano a migrare. Quante ore devono aver trascorso a fissare la stella in quelle prime nottate nel nido, sbirciando da sotto la pancia della mamma. Quella luce così intensa è un punto fermo.
Se gli zigoli sono irremovibili, le lucciole invece puoi ingannarle più facilmente. Al passaggio di una macchina con i fanali accesi già perdono il ritmo del proprio luccichio per qualche minuto. A volte impiegano ore per ricalibrare i loro schemi lampeggianti. Cosa va perduto in quel silenzio radio? Che genere di connessioni viene tradotto in maniera imprecisa o del tutto ignorato? Le luci delle verande, i camion, i palazzi e il bagliore inclemente dei lampioni non fanno che complicare la faccenda e far desistere le lucciole dall’inviare i propri messaggi d’amore luminosi – il che significa che l’anno successivo nasceranno meno larve.
Gli scienziati non concordano su come queste lucciole acquistino la propria sincronia. Forse si tratta di competizione tra esemplari maschi, che vogliono sempre essere i primi a trasmettere il proprio segnale lungo le vallate e tra il gramignone. Se tutti lampeggiano in contemporanea, allora magari per le femmine sarà più facile determinare chi brilla di più. Qualunque sia il motivo – e a dispetto o, piuttosto, per via di tutte le visite guidate che stanno iniziando a spuntar fuori nelle Smoky – le lucciole non brillano più in simultanea per tutta la notte. Le loro coreografie prevedono a volte dei brevi flash, per poi concludersi bruscamente portando a inquietanti intervalli di oscurità. Le lucciole sono ancora là, ma volano o si riposano sui fili d’erba restando visivamente mute. Magari un visitatore si è scordato di spegnere la torcia, oppure ha lasciato accesi troppo a lungo i fanali dell’auto, ed ecco che le lucciole vanno in sciopero. Le uova e le larve di lucciola sono bioluminescenti, e le larve stesse sono cacciatrici. Riescono a scorgere le tracce di bava di una lumaca o di una chiocciola e seguirle fino a risalire alla succosa, ignara fonte. Sono stati registrati dei casi in cui interi gruppi di larve riuscivano a scovare prede relativamente grandi, per esempio lombrichi – una specie di inseguimento macabro a lume di candela uscito dritto da un vecchio b-movie: eccole sulle rive di una polla torbida, le larve, a pulsar luce mentre fagocitano un verme che ancora si divincola. Certe larve di lucciola vivono interamente sott’acqua, le loro luci si accendono poco sotto la superficie mentre catturano e divorano le lumache d’acqua dolce. Per essere coleotteri, le lucciole hanno una vita lunga e intensa – della durata media di due anni – che trascorrono però in gran parte sotto terra, a mangiare e dormire sontuosamente fino a sazietà. Nel momento in cui noi scorgiamo il bagliore di quei segnali luminosi, a loro in genere non restano che un paio di settimane di vita. Nello scoprire questo fatto, da bambina – quando non era raro vedermi passeggiare con lentezza in qualche cortile spoglio, a trastullarmi e nient’affatto pronta a rientrare per la cena –, ero scivolata nella malinconia, malgrado l’idea di quel loro scintillio. Non riuscivo a capacitarmi del fatto che una cosa tanto piena di luce potesse andarsene così in fretta.
So che cercherò le lucciole per il resto dei miei giorni, anche se a ogni anno che passa loro vanno scemando. Non posso farci niente. Si accendono e si spengono, bagliori giallognoli in una notte d’estate, come a dire: Io sono ancora qui, tu sei ancora qui, io sono ancora qui, tu sei ancora qui, io sono, tu sei… e via così all’infinito. Forse posso renderlo vero anche solo a forza di desiderarlo. Forse quelle notti d’estate in compagnia della mia famiglia posso conservarle in un vasetto vuoto, con qualche foro sul coperchio e un rametto e qualche filo d’erba ficcati dentro. E in quelle inimmaginabili notti che arriveranno, quelle in cui so che sentirò più forte la mancanza di mia madre, lascerò che il dolce bagliore oltre quel vetro mi serva da lanterna, a rinfrescare e addolcire l’aria.
da Un mondo pieno di meraviglie di Aimee Nezhukumatathil
Giulia Carlini sceglie i libri per bambini di una catena di negozi di giocattoli e, quando non lavora, scorrazza fra la Brianza e l'Appennino ligure a caccia di erbe e di ispirazioni.
Raccogliere erbe selvatiche
di Giulia Carlini
Ho iniziato ad appassionarmi alle erbe selvatiche commestibili solo da qualche anno, anche se per tradizione familiare sono sempre state una presenza costante della dieta di casa. Nella mia zona d’origine, l’appennino ligure-piemontese, la raccolta di erbe a scopo alimentare è sempre stata una risorsa di non poca importanza, e il loro utilizzo ha dato origine (lì come in tutta la parsimoniosa e avara di risorse Liguria) a una serie di piatti tradizionali di grande valore nutrizionale e di grande eleganza: zuppe, ripieni, frittate, salse. Paradossalmente però, la mia prima grande scoperta è avvenuta nei dintorni del luogo dove vivo, vicino a Monza, grazie a un grande parco e al profumo di aglio.
Le mie prime e più semplici raccolte si limitavano all’ortica, erba selvatica facilissima da riconoscere, odiata per l’effetto pungente del contatto con le sue foglie ricoperte di peli urticanti, ma eccezionale ingrediente di torte salate e frittate; alla borragine, insuperabile regina dei ripieni per i ravioli tradizionali. E all’aglio ursino, che cresce rigoglioso nella zona dove vivo.
Poi, di ricetta in ricetta, è cresciuta la curiosità per questo mondo vegetale sovente negletto, relegato al ruolo di erbaccia da estirpare, infestante sgradita di orti e giardini, nemica dei prati all’inglese.
Un mondo invece ricchissimo di sorprese, legato strettamente alla tradizione di tutte le regioni d’Italia, colmo di storie, ricette, racconti e soprattutto straordinariamente utile, per la salute e in cucina. Una tradizione della quale per lunghi anni ci siamo dimenticati, spesso conservata soltanto da una generazione di anziani dalla memoria tenace, che continuano a prendersi cura di un sapere antico, parte integrante dei ritmi naturali.
Ed ecco che pian piano, seguendo tortuosi sentieri del ricordo, sfogliando erbari e manuali, inseguendo per campi raccoglitori casuali, ho iniziato a capire che quelle che calpestiamo in un prato qualsiasi, dal parco dietro casa al sentiero di montagna, non sono erbacce senza storia, ma un intero mondo vegetale amico, che aspetta solo di essere riscoperto, amato e accudito. Un legame antico ci guida a riannodare il filo dell’ancestrale rapporto con queste creature magiche, utili, meravigliosamente disponibili per chiunque abbia voglia di staccare gli occhi da uno smartphone e rivolgerli alla bellezza del mondo.
Raccogliere erbe selvatiche è un’esperienza benefica e meravigliosa, un tuffo nell’impressionante biodiversità del nostro pianeta. I nostri nonni ne conoscevano usi e proprietà, e integravano la dieta, spesso scarsa di vitamine e minerali, con le piante spontanee che la natura ci ha sempre messo a disposizione in abbondanza, inventandosi modi ingegnosi di cucinarle e utilizzandone le proprietà, note da secoli di studi erboristici, per curare piccoli malanni e arricchire i pasti.
Andare per campi e boschi alla scoperta di queste fenomenali erbe è un passatempo salutare e divertente, che ci connette alla natura più selvatica e ci spinge a riscoprire sapori e odori dimenticati. La bontà di alcune specie invita a cimentarsi con ricette di cucina semplici, mescolando ingredienti e sperimentando combinazioni sorprendenti.
L’umile ortica può essere l’elegante farcitura di una torta salata, mentre la piantaggine darà un tocco speciale alla frittata, col suo aroma di champignon. L’aglio ursino trasformerà il pesto in una salsa aromatica ma leggera, mentre il lamio purpureo ci regalerà i suoi colorati fiori violetti per una tisana depurativa. Ogni erba che cresce al bordo di un campo o di un sentiero può trasformarsi in un ingrediente delizioso.
È comunque sempre necessaria molta pazienza e molta cura. Raccogliere erbe selvatiche può essere gratificante ma richiede attenzione. Per ogni erba commestibile, ve ne sono altrettante tossiche o addirittura letali. Munirsi di un ottimo manuale, studiare attentamente le caratteristiche specifiche di ogni pianta, la stagionalità e l’habitat, sono tutti passaggi necessari per chi desideri avvicinarsi a questa straordinaria esperienza. Meglio ancora, conoscere qualche raccoglitore esperto (e sovente nonne e nonni sono una miniera di insospettabili informazioni!), o affidarsi a un botanico, come si farebbe per i funghi, possono risparmiarci spiacevoli e dolorose conseguenze.
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Mia nonna faceva foraging
Chissà come se la riderebbe la mia nonna, donna esplosiva ed espansiva, appassionata raccoglitrice di funghi ed erbe mangerecce di qualsiasi tipo, a sapere che oggi sarebbe molto di moda. Quello che faceva per necessità, cioè raccogliere erbe, funghi, castagne, ma anche rami e rametti, insomma tutto quello che il bosco o il prato potevano offrire a migliorare la vita della sua numerosa famiglia, è oggi una disciplina ammantata di una cert’aura di magia e romanticismo che, con un termine che ci arriva dai paesi nordeuropei, molti chiamano foraging.
Il foraging altro non è che la raccolta di erbe spontanee ad uso alimentare, ma se vogliamo utilizzare un termine nostrano possiamo chiamarla fitoalimurgia. Il termine fu coniato nel 1918 dal medico e naturalista Oreste Mattirolo, ordinario di botanica e direttore dell’orto botanico di Torino, che durante i terribili eventi della prima guerra mondiale, pensò a come la grande disponibilità di erbe commestibili potesse costituire un valido aiuto al sostentamento delle persone. Un grande patrimonio facilmente reperibile e utilissimo come fonte di vitamine, proteine, sali minerali.
Insomma, la raccolta di erbe ha una storia assai antica, che affonda le sue radici in un passato lontano, decisamente più antico dei primi del ‘900 di cui sopra. Le erbe spontanee ci hanno accompagnato sin dai primordi della nostra comparsa sulla Terra, e hanno avuto amplissimo utilizzo per millenni: con alterne fortune ed esiti sono state cibo e medicamento, rimedio pratico ai più comuni malanni e persino amuleti magici per scacciare sfortuna e richiamare energie positive e benefiche.
Così oggi la mia nonna che andava per campi mi sarebbe utilissima a fare bella figura fra i foragers, sciorinandomi tutte le proprietà e i sapori di ogni erba di campo, e mi risparmierebbe col suo sapere, tramandato di mamma in figlia, lo studio solitario o l’accesso a qualche costoso corso di erboristeria.
Scherzi a parte, davvero in Italia esiste una lunga e consolidata tradizione della raccolta di erbe, che per fortuna in qualche modo è sopravvissuta ed è stata tramandata, recuperata e valorizzata da moltissime persone: botanici, cuochi o semplicemente appassionati del territorio. Possiamo tutti diventare custodi di preziosi saperi antichi, recuperando conoscenze non solo utili e interessanti, ma anche indispensabili per metterci nuovamente in sintonia con un ritmo di vita più lento e curioso verso la natura selvatica. Non serve andare in paradisi naturalistici remoti e inaccessibili, è sufficiente fare una passeggiata per boschi, prati, sentieri spesso a pochi chilometri da casa, per riscoprire un ambiente ricco di meraviglie minuscole ma stupefacenti.
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L’aglio del parco
Non è difficile trovare l’aglio ursino, in realtà, per chi vive nei dintorni di Monza. In primavera, l’intero parco e tutti i suoi giardini si ammantano di una verde coperta di questo bulbo, che rallegra ogni angolo con una meravigliosa distesa di fiori bianchi, appaganti per lo sguardo, e profuma l’aria di tutta la zona di un caratteristico aroma pungente. Vale di sicuro la pena di una visita, non ve ne pentirete.
È stato uno dei miei primi amori in fatto di erbe, l’aglio ursino, proprio perché lo vedevo ogni giorno in quel contesto spettacolare, e informandomi della sua storia e sulle sue proprietà mi ha fatto venire una gran voglia di prenderne qualche foglia e provare a farne uso. Ma al Parco non è consentita la raccolta, perché in quell’ambito è una specie tutelata, e forse non è neppure troppo consigliabile, considerato che nelle zone fortemente antropizzate e spesso inquinate anche le erbe spontanee rischiano di contenere sostanze tossiche. Un’accortezza questa, che se vi accingete a dedicarvi alla ricerca di erbe spontanee commestibili dovrete sempre tenere presente. Cercate le vostre erbe in zone più possibile incontaminate, lontane da strade, case, terreni coltivati, concimati, trattati con sostanze chimiche e frequentati dal bestiame.
E già che ci siamo, un altro paio di cose le dovete assolutamente considerare: informatevi bene se nella zona dove volete raccogliere ci sono dei vincoli o delle specie protette, che non vanno assolutamente toccate; non raccogliete mai più di quello che vi serve effettivamente (in generale si considera un bel mazzo per ogni erba); raccogliete con gli strumenti adeguati (io uso un semplice coltellino a falcetto e delle forbici, guanti se necessario, come per le ortiche) e asportate solo le parti utili, senza rovinare la pianta; riponete il raccolto in sacchetti di carta o, meglio ancora, in cestini di vimini naturale, in modo da non schiacciare le foglie e i fiori, e lasciar respirare il raccolto.
Comunque, scattato il colpo di fulmine, dovevo assolutamente trovare un luogo dove questa meraviglia spontanea crescesse indisturbata. Ci ho messo un po’, in effetti, ma sempre in Brianza, sono riuscita a trovarla in un’altra località del Parco della valle del Lambro. È stata una grande emozione e un’immensa soddisfazione poter fare la mia prima, piccola raccolta: la prima erba selvatica non si scorda mai! Con l’aglio ursino mi sono cimentata in qualche prova culinaria, iniziando nel frattempo a studiarne con passione le caratteristiche botaniche, alimurgiche e fitoterapiche.
Non si può neppure immaginare quanto faccia stare bene ritornare a casa col proprio cestino ricolmo di un ben di Dio che la natura ci offre spontaneamente, dopo aver passato una giornata immersi nel silenzio, a contatto con la terra e le sue meraviglie! Una “spesa” naturale al 100%, disponibile in qualsiasi prato o sentiero o radura, alla quale avvicinarsi con curiosità e rispetto, che garantisce salute e una grande soddisfazione, quella di rimettersi in sintonia con l’ambiente e la sua biodiversità, e recuperare qualche sapere antico, qualche preparazione semplice e gustosa. È una cosa da provare: io ho iniziato così, proprio con l’aglio ursino, e non mi sono più fermata…
Giulia Carlini
Grazie per averci seguito anche su questo sentiero: ci rivediamo con la luna nuova del 10 marzo, insieme a Barbara e al suo diario dell’orto. Se è il primo numero che ti arriva, puoi curiosare fra i precedenti qui e da qualche numero anche qui. Se vuoi raccontarci le erbe che raccogli, quelle che usi per le tue ricette preferite o quale meraviglia della natura ti conquista di più, scrivici a bracciarubatenewsletter@gmail.com: saremo felici di leggerti.
Maria Claudia
La farfalla non conta gli anni ma gli istanti: per questo il suo breve tempo le basta.
Rabindranath Tagore
Quando ero piccola andavo con mia nonna a "fare erba" (diceva così) e mi pareva un'avventura fantastica. Sapeva cosa prendere e cosa no e pure come. A rovistare nella memoria della me bambina la vedo muoversi come se andasse a istinto, si fidava dell'abitudine e dei posti che sapeva, non mi ricordo che esitasse mai. A me non insegnava niente, a parole, ma badava che guardassi cosa faceva.
Non l'ho mai fatto da sola né da adulta, ma mi è venuta voglia di riallacciare quel filo con la nonna :)