La luna è nuova dalle 10.37
Gli indomiti fan del Trono di Spade (esistono ancora?) ricorderanno che il motto di casa Greyjoy è “ciò che è morto non muore mai”: in questa luna nuova di novembre, la luna dei morti, vorrei dedicare il numero a ciò che muore e che, in qualche modo, non muore mai per davvero.
Quello che muore in autunno, riposa nella terra per tutto l’inverno, e poi rinasce a primavera. Un processo che ha stupito l’umanità da sempre, ha ispirato miti grandiosi come quello di Persefone e costituisce l’anello fondamentale che lega vita e morte. Quell’anello è il suolo, è il lavoro di batteri, funghi e lombrichi, è materia organica inanimata che diventa humus brulicante, assenza che si fa nuova presenza. È fare spazio, rinunciare per ricominciare, andarsene per tornare.
In questo numero, ne parleranno Alma Spina dell’associazione Alle Ortiche di Genova, e gli autori di Funerali preparati (Quinto Quarto), Marco Taddei e Michele Rocchetti, un compendio illustrato di filosofia della sepoltura, da cui prendiamo un estratto e un invito per un esercizio di fantastica.
Barbara
Diario dell’orto: noi non seminiamo
Quegli stessi sparuti fan del Trono di Spade sapranno anche che il motto dei pirati Greyjoy era in realtà “noi non seminiamo”: e questo, dicevamo, è il tempo di ciò che è morto, non di ciò che rinasce, almeno non ancora. Per quest’anno l’orto invernale non ci sarà.
Ci sarà il riposo – quasi totale: in realtà seminerò a dicembre i piselli, ma solo loro, e giusto perché mi piace l’incoerenza: la coerenza è davvero la morte di ogni spinta alla vita – mentre il terreno digerirà, lavorerà, recupererà sostanze e forze. Io vorrei dormire, vorrei un lungo letargo che finisca solo in primavera, non lo avrò, avrò dei mesi in cui anche il mio metabolismo dovrà digerire qualcosa che finisce, qualcosa da gettare alle ortiche, senza al momento pensare alla rigenerazione e al nuovo, come hanno fatto a Genova.
Probabilmente non c’entra nulla ma ho appena aperto un account su quelle piattaforme in cui puoi vendere le tue vecchie cose: “dai nuova vita ai tuoi abiti”, o qualcosa del genere, è il payoff. Ci ho provato, negli annunci scrivo “buono stato” ma non so dire in che stato siamo io e i miei vecchi cappotti: la verità è che vorrei tenerli qui, morti, con me, o portarli in giro, darli via ma sempre da morti, con le loro cartacce nelle tasche, i vecchi biglietti della metro, un appunto che doveva farmi ricordare di.
Dovrei imparare meglio ad accettare che la nuova vita arrivi solo sulle macerie, ad accettare che qualcosa lo diventi, perché ci sia lo spazio per il nuovo, ad accettare il rischio che anche nelle migliori intenzioni non sempre riesca la magia.
Il nuovo richiede una perdita che non vogliamo ammettere, che è la cosa che cerchiamo di evitare con i riti funebri, con le sepolture, con l’imbalsamazione e la separazione netta dalla possibilità di rientrare in un ciclo di rinascita. Per tornare a nuova vita dobbiamo concedere ai corpi di entrare in contatto con la terra, processo di cui abbiamo così tanto orrore da inventare meccanismi di separazione sempre più sofisticati. Viviamo in uno stato di forzosa separazione con l’ambiente, e muoriamo allo stesso modo, ci decomponiamo nel vuoto di bare sigillate affinché la morte non possa mai venire in contatto coi vivi, e però in questo modo ci diamo una morte assoluta, dove solo all’anima è concesso un tempo supplementare.
In Tibet, dove vive gente di cielo più che di terra, praticano la sepoltura celeste, l’avrai sentita nominare: i corpi vengono scuoiati ed esposti all’aria, gli avvoltoi li mangiano e li portano così in volo, reintegrano quelli che vengono considerati solo involucri per le anime (ormai usati, ormai inutilizzabili) nel ciclo della vita. È disgustoso e insieme poetico, no?
Ma tornando all’orto, niente metafore: non seminerò. Ogni gesto ha i suoi tempi, e la semina richiede che prima si faccia spazio. Avevo trapiantato alcuni broccoli e un po’ di finocchi, ma poi non ci sono stata appresso, e hanno subito i soliti attacchi delle limacce, perciò basta, basta, questo è il giro in cui si sta fermi e poi si riparte dal via.
In compenso, è il primo anno in cui l’alberello di arance si è riempito di frutti. Lì, dimenticato nel suo angolino, tutto preso nella sua solitaria battaglia contro la micidiale coppia afidi-fumaggine, quest’anno si è riempito di arance. Ma pensa.
Terrò giusto alcune verdure in vaso: ci sono i broccoletti maceratesi, il cavolo nero, un po’ di lattuga varia e la bieta rossa. Ma nell’orto, l’orto-morto, rimangono gli spettri delle piante di pomodori, melanzane e peperoni, una pianta di zucca secca da cui ho raccolto gli unici due frutti a fiaschetto (uno dei due davvero molto piccolo), i tentativi malriusciti con broccoli e finocchi, la cavolaia che si aspettava altro cibo e che invece rimarrà delusa. Questo campo libero si beccherà gli scarti, le foglie morte, il silenzio e l’attesa. E i piselli rampicanti: sostituiranno i pomodori, vorrei provare a sfruttare per loro l’impalcatura di canne che avevo costruito l’estate appena passata, così saranno sì l’unica cosa nuova dell’orto, ma che crescerà sulle spalle del vecchio. Vediamo, dai, qualcosa rinasce sempre, anche quando ci sfugge il nesso fra azione e reazione, fra attesa e accelerazione.
Chissà quando i nostri antenati avranno capito il meccanismo della vita e della morte, chissà quante volte saranno rimasti stupiti dalla capacità degli alberi di spogliarsi completamente della vita, in autunno, sembrare morti, con una somiglianza netta agli scheletri, per un lungo inverno – mentre intanto però spuntavano piccole nuove gemme, mentre si ricoprivano di occhi chiusi, occhi di morto ma anche occhi dormienti in attesa del risveglio –, e poi esplodere di vita a primavera. Chissà quante volte. Lo sgomento incredulo della fine, la promessa entusiasta degli inizi. Anno dopo anno, generazione dopo generazione, morti dopo morti, e nuovi nati dopo nuovi nati.
Dove c’è assenza c’è spazio
a cura di Alma Spina per Alle Ortiche
Con i ricordi di Eleonora De Biasi e Arianna Cianetti
Foto di Paolo Alfano
Varcata la soglia del cancello, cammino lo spazio della crepa.
Dei piccoli mattoni rossi fanno per incastro un pavimento. Calpesto e non guardo. Mi animo, mi accendo, parlo d'altro. Stretta stretta al corrimano in ferro, discendo una scala di pietra addossata a un muraglione; l'edera allunga tutta verso il basso a ricoprirlo. Giù in fondo, attende un ampio prato. Il grande schermo montato sui metalli si prepara a proiettare Stalker. Ci appollaiamo su seggiole già pronte, le persone si scambiano sguardi non frettolosi e piccoli accenni di sorrisi. E poi il cane, l'acqua, le dune... Nel lento diradarsi delle teste che scompaiono appare, in ultimo, lo spazio. Di colpo, solo a un tratto, mi accorgo: non avevo visto niente.
Il prato non è un prato ma erba tra il cemento; dietro lo schermo, da sotto salgono rovi e da sopra scendono liane e foglie sul capannone; lungo il tetto della struttura metallica, una sfilata di rottami: lamiere ondulate, converse, vetro resina; dalla porta spunta una zappa consunta, il manico in legno è aperto per lungo.
Mi perdo la fine del film. Faccio girare gli occhi altrove e li strizzo nel buio, mi faccio animale mi faccio felina. Cammino da seduta in tutti i posti e vedo un grande e fitto fitto coabitare di piante e calce, alberi e muri, reti e glicine, terra e ferraglie rotte. E vetri. Ovunque ci sono vetri. Un andare e un restare che tirano da una parte e dall'altra. Una stessa forza che mi prende e mi blocca nel punto in cui sto.
Alma Spina – primo movimento nel pratone – estate 2020
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Gettare qualcosa alle ortiche significa liberarsi di un oggetto che non si vuole più, buttarlo via, disfarsene. Ed è a partire da questo che nel 2019 a Genova nasce Alle Ortiche, un'associazione di promozione sociale volta a realizzare progetti di rigenerazione urbana e innovazione civica a base culturale e ambientale. Nasciamo tra gli spazi della ruggine, dei cocci rotti e dell'abbandono, dove regna indisturbato il cosiddetto verde urbano – altro non è poi che alberi, cespugli, arbusti che si fanno largo tra le pieghe dure del cemento che si sfalda. Un luogo da vent'anni gettato alle ortiche, intorno e dentro al quale iniziano a gravitare dei corpi: volontari e volontarie che si ritrovano, si aggregano, puliscono lo spazio, lo abitano, mangiano insieme, uniscono le menti in un pensiero di futuro per immaginare il diverso che verrà. Alle Ortiche si muove in uno spazio multidisciplinare e vasto, in cui convergono cultura, agricoltura, botanica, rigenerazione, osservazione, andare, venire, restare. Ogni anno nei primi giorni di settembre organizziamo un festival, ormai giunto alla V edizione. Lo spazio si anima e si riempie in tre giorni di tavole rotonde partecipate su temi legati alla rigenerazione e all'ecologia, concerti, spettacoli teatrali, workshop, banchetti di produzioni artigianali, area food con aziende agricole del territorio, una mostra diffusa negli spazi delle serre.
“Il mio ricordo risale alle prime volte in cui siamo entrati nella Serra Maggiore, prima che avesse un nome, prima che fosse qualcosa di più definito. Lo stupore di vederla da lontano come se fosse davvero un posto vicinissimo ma irraggiungibile, e di quanto spazio di scoperta ci fosse tra noi e quella serra. Lo racconto sempre quando faccio le visite guidate: noi non sapevamo neanche se aveva un pavimento. C'era questo tappeto fittissimo di erba miseria, quella verde, di un verde brillantissimo che copriva tutto. Lo copriva così bene. Aveva questo stratino di terra sottile ma uniforme. Abbiamo scoperto dopo una settimana di scavi che c'erano delle mattonelle lì sotto, c'era il cotto: non ce lo immaginavamo neanche. Quando abbiamo trovato la porta della serra, che vedevamo ma non riuscivamo a raggiungere, non siamo potute entrare subito perché era chiusa con un grande lucchetto arrugginito. Abbiamo chiamato i fabbri, che col flessibile (prima che diventasse uno dei miei strumenti preferiti) l'hanno aperta. Siamo riuscite a entrare in questo spazio di poco più di un metro quadrato per stare in piedi – oltre questo spazio non si vedeva più nulla. Era tutto coperto di Tetrastigma, stramaledetta vite del castagno, che poi abbiamo scoperto essere un'unica enorme pianta. Il tronco aveva un diametro più grosso del mio corpo. Tutto il tempo che abbiamo impiegato a togliere quello che c'era e ad esplorare lo spazio è stato un tempo di scoperta: lavoravamo senza sapere cosa avremmo trovato. Mi sentivo una Indiana Jones della serra maggiore. Inoltre, la cosa sconvolgente era che mi trovavo in un posto che era sempre stato a poche centinaia di metri da dove sono cresciuta. Non uno spazio esotico, lontano ma letteralmente sotto casa. Questo ha aumentato esponenzialmente la mia sensazione di scoperta, perché non mi sarei mai aspettata di trovare qualcosa del genere in un posto tanto conosciuto dal mio sguardo. Adesso che, dopo anni, continuiamo a ripulire quello spazio, è svanita quella sensazione di scoperta – ma nel tempo quello spazio grande è diventato familiare. Ci sono delle volte in cui vado la sera e non accendo nemmeno la luce. So dove vanno i miei piedi. É cambiata la mia meraviglia. Quella sensazione che ho provato nello scoprire la serra maggiore, forse perché da quel metro quadrato siamo passati a settecento metri quadri, non l'ho mai provata in nessun'altra occasione.”
Eleonora De Biasi – primo movimento nella Serra Maggiore – estate 2020
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Lo spazio che abbiamo scelto di abitare si trova in Valletta Carbonara ed è una parte delle Serre di San Nicola. La sua storia ha radici lontane. Il primo movimento di cui siamo a conoscenza si colloca a metà del 1600, quando Emanuele Brignole, nobile genovese, finanzia lo sbancamento della collina della valletta per la costruzione dell'Albergo dei Poveri. Il retro dell'edificio diviene dapprima luogo di cantiere e deposito per la nuova costruzione; quando nel 1657 la città viene duramente colpita dall'epidemia pestilenziale che dimezzerà (e più) la popolazione, il terreno retrostante l'Albergo è uno dei luoghi che i governanti si trovano costretti a designare alla sepoltura dei corpi. La storia delle Serre è una storia di stratificazioni, di cose che si mettono sopra ad altre in uno scavo, in un alzarsi progressivo dei volumi. Nel 1874, l’area diventa uno dei vivai più importanti del Comune di Genova e questo rimane per i successivi cento anni. Passano per i banconi di cemento delle serre antiche centinaia di specie di piante diverse, semenze antiche, piante tropicali. Ne restano ancora tracce nelle selvatiche che ogni tanto incontriamo, monitoriamo, mappiamo. Nei primi anni Duemila il vivaio si sposta e le Serre vengono abbandonate pian piano completamente. Lì, iniziano ad accadere tutti quei fenomeni naturali che animano uno spazio quando viene lasciato al silenzio dell'umano.
Succede che i rovi prendono spazio. Si allargano, diramano, sovrastano, si danno tutte delle arie e assumono presto un'andatura irriducibile. Creano un tappeto ombroso di stretture e passaggi. Sotto di loro, rumoreggia il substrato umico: un via vai di insetti, lombrichi, microrganismi, funghi. Tutto un affaccendarsi. Da sopra non entra più nulla: le spine tengono lontani animali, uccelli e piccoli predatori. Si fa spazio la luce, quel poco che basta a fare tutto vivo. Ed è lì che le cose accadono: arrivano i semi. Li trasportano i venti, oppure arrivano per un errore di digestione, tra le feci degli uccelli, o ancora rimangono attaccati alle loro piume e poi, così giustamente, cadono. Trovano luogo di riposo nel substrato del roveto. L'umido permette la loro germinazione, e allora iniziano a crescere le prime piante, i primi piccolissimi alberi. Tutte queste cose insieme vanno verso un unico sistema armonico: il bosco. E arrivano gli ailanti, i licheni, i muschi, le ortiche.
Entrando in contatto con spazi come questo, il percorso va un po' al contrario. Noi siamo arrivate quando tutto questo era già accaduto e ci sono apparse chiare e non chiare le stratificazioni del tempo: gli sguardi si muovono e le mani non stanno più ferme. Varcare la soglia della rovina e toccarla vuol dire inevitabilmente fare, modificare, togliere, aggiungere. Banalmente, fare spazio ai piedi per andare. Al contempo vuol dire stringere un legame con un luogo che è stato diverso e che sarà diverso, creare affezione, fare di tutto per imparare a mantenere.
“Era estate, di questo sono sicura perché mi ricordo il caldo e il sole dritto in faccia. Camminavo con le mani occupate da qualche attrezzo da lavoro vicino al pratone, quando sulla sinistra, nell’aiuola, una macchia di colore mi ha incuriosito. Tra tutto quel verde di erbacce e piante vedo un batuffolo viola con una forma strana che non avevo mai visto. Mi avvicino e inizio a guardarlo meglio: era rotondo, paffuto e con tanti filamenti sottili color lavanda tutti vicini e diritti, sembrava quasi un pennello o un’acconciatura…era davvero simpatico lì in mezzo. Guardando le foglie, il fusto e la base del batuffolo inizio a riconoscere qualcosa di familiare… ebbene si, era proprio un carciofo! Tra tutte le erbacce e nella terra secca avevo scoperto il fiore del carciofo.”
Arianna Cianetti – primo movimento nell'orto – inverno 2021
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Alle Ortiche è un’associazione di promozione sociale fondata a Genova nel 2019 per realizzare progetti di rigenerazione urbana e innovazione civica a base culturale e ambientale.
Esercizio di fantastica
Disposizioni di un matto di paese
da Funerali preparati, Marco Taddei e Michele Rocchetti, Quinto Quarto Edizioni
Prima di morire ti scrivo questa lettera, Luna, a te che sei l’unica che sei stata a sentirmi in questi anni. Luna, tutto questo tempo assieme e non ci siamo mai presentati. Piacere, io mi chiamo Michele, e vivo qui da sempre. Quando ho saputo che ce ne vuole uno in ogni paese, ho deciso di accollarmi la responsabilità di essere il matto del posto. Vado in giro coi pantaloni al contrario, ho un cappello vecchio e colorato e racconto che i denti davanti me li ha rubati la gazza ladra perché erano d’argento, ma non è vero, mi sono cascati perché ormai sono vecchio. Ho notato che qualche volta non ci stai, ti fai tutta nera e sparisci. Ti prendi un po’ di ferie. Fai bene. Io le ferie non me le posso prendere, perché, lo so bene, senza di me andrebbe tutto a gambe all’aria. I miei compaesani però dicono che non faccio niente dalla mattina alla sera. Dicono che sono uno sfaccendato, che parlo a vanvera e pure male, che campo a sbafo. Io sono come il loro uccellino dentro la gabbietta. Mi c’hanno messo loro e loro mi pagano il becchime. E come pagano! Tutti, tra le risate, mi offrono da bere e io bevo. Più mi ubriaco, più ridono, più ridono più piango, più piango più mi danno da bere per farmi stare zitto, e poi alla fine che sono ridotto che casco per terra gli faccio schifo e mi scacciano verso casa. Solo tu sai, Luna, che mi butto nel canneto e dormo su di un cuscino che sa di vermi e radici. Il giorno dopo torno a girare per il paese, a farfugliare contro qualcuno che mi ha fatto chissà cosa. Io e te lo sappiamo che m’invento tutto, ma che posso fare? Quello gli serve! Qualcuno che faccia così, che dia di matto, che sia l’ultima ruota dell’ultimissimo carro, qualcuno che faccia star bene chi sta male, che gli basta guardarmi per fargli dire «per lo meno, non sono ridotto come questo qui». Mi fa male a sentirlo, ma almeno sono servito a qualcosa e mi ficco nel buio a fissare a te. Mi sono toccato tante volte mentre mi guardavi zitta dall’alto del cielo, Luna, e non so nemmeno se sei maschio o se sei femmina. Non ho ancora conosciuto la carne di una donna e ora che sto scrivendo a te, Luna, che tutto sai, mi passa pure la vergogna a confessarlo. A proposito di vergogna, ma non ti vergogni mai ad illuminare tutta questa monnezza di mondo ogni notte che passa? Io ti lascio questa letterina, ricordati di me ogni tanto. Illumina bene la strada di chi torna a casa la notte e pure, se vuoi e ti fa piacere, la tomba mia.
L’esercizio, dunque, è questo: quali pensi sarebbero le disposizioni funerarie del signore scontroso sull’autobus, quello che non voleva spostare la sua busta della spesa per farti sedere? E quelle della vecchietta che portava a spasso il suo cocker spaniel, parlandogli dello stato delle siepi del parco? E le tue?
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Funerali preparati è un compendio di filosofia della sepoltura, che raccoglie le disposizioni post mortem di personaggi di ogni genere: Uomo povero, Strega, Matto di paese, Suora, Costruttore di labirinti…
È una Spoon River miserabile, magica, fantasiosa e cialtrona, che graficamente gioca con la schiettezza degli spazi bianchi e con la leggerezza della grafica cimiteriale, che si chiude con un emblematico testo di Giorgio Manganelli su letteratura e morte scritto in seguito alla scomparsa di un altro gigante della letteratura mondiale: Jorge Luis Borges.
Marco Taddei, sceneggiatore e scrittore, da sempre ama la scrittura e la comunicazione. Tra le sue pubblicazioni: gli albi illustrati "La nave dei folli" (2016, con Michele Rocchetti) e "Il nuovo palazzo della sirenetta" (2018), per Orecchio Acerbo; "Malloy gabelliere spaziale" (Panini 9L, 2017); "Horus" (Coconino Press, 2018), "La Quarta Guerra Mondiale" (Feltrinelli Comics, 2020), "Malanotte" (Coconino Press, 2022). Nel 2023 si aggiudica il Premio Boscarato come miglior sceneggiatore per "Malanotte" (Coconino), “Un mistero alla luce del giorno” (Hoppipolla) e “Vita da Soldatinen” (Feltrinelli Comics).
Michele Rocchetti, illustratore e progettista grafico, nel 2012 conclude il master di primo livello Ars in Fabula in “Illustrazione per l’editoria” presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. Dal 2015 è contrattista presso la cattedra di Illustrazione scientifica dell’Accademia di Belle Arti di Macerata. Ha collaborato e collabora con editori quali Orecchio Acerbo (per cui insieme a Marco Taddei ha pubblicato "La nave dei folli"), Helbling languages, Gribaudo, EDT, Giralangolo. Tra i principali riconoscimenti: selezione alla Bologna Childrens Book Fair nel 2018 e nel 2014, selezione al Sharjah Exhibition for Children’s Books nel 2017, selezione White Ravens 2017, menzione speciale premio internazionale Limèn Arte 2014.
Mi sono chiesta se non fosse fuori luogo parlare di morte, provare addirittura a giocarci, in questi giorni in cui nel mondo accade quello che accade. L’unica risposta che sono riuscita a darmi è che tutto mi appare ferocemente fuori luogo: avere cura nel lavarsi i denti la mattina è fuori luogo. Preoccuparsi per il pranzo, con un frigo pieno e funzionante, lo è. Lo è chiedersi se non sia il caso di comprare delle nuove scarpe per l’inverno.
In questo essere sempre fuori luogo, essere sempre impotenti di fronte all’orrore, forse allora vale ancora qualcosa lo stare qui a scriverci. A dirci insieme che siamo fuori luogo (e se vuoi raccontarci qualcosa, l’invito è sempre aperto: scrivi a bracciarubatenewsletter@gmail.com).
Torneremo il 13 dicembre per un numero speciale di Sentieri che chiuderà l’anno.
Ciao,
Barbara