La luna è nuova dalle 14.40 di ieri, 6 giugno 2024
Questa newsletter è nata attorno all’idea di esercizi di fantastica: all’inizio, il diario dell’orto doveva essere solo un modo per dare un tempo, una cadenza assieme alle lune, agli esercizi proposti.
E la fantastica doveva essere intesa nel senso che le dà Rodari, nel suo Grammatica della fantasia, e che a sua volta aveva preso da uno dei frammenti di Novalis, che dice:
Se avessimo anche una fantastica, come una logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare.
Poi il diario dell’orto è diventato il mio esercizio di fantastica perché per inventare bisogna darsi anche dei limiti certi e ben definiti – o almeno, così funziona per me – e l’idea di scrivere a cadenze regolari, secondo i tempi non contrattabili delle lune, di un pezzetto di terra i cui limiti sono resi tangibili da una rete sgangherata, di cose concrete e reali, che si piantano, crescono, hanno forme, odori e consistenze definite, fanno frutti, a volte, e sempre, inevitabilmente, muoiono, è stato il mio modo per ricominciare a immaginare.
Col tempo gli esercizi di fantastica sono rimasti un po’ all’angolo, ma ora che siamo alle soglie dell’estate vorrei rispolverarli e ridare loro spazio.
Cominciamo da questo numero, con un esercizio di fantastica proposto da Veronica Galletta, che parte, anche lei, da cornici, limiti e regolarità, per poi arrivare alla luna nuova di luglio con un quaderno della fantastica per le vacanze: sarà un numero speciale, con cui ci saluteremo prima della pausa estiva, e conterrà gli esercizi proposti da ospiti, amiche e amici di Braccia Rubate.
Intanto, anche nell’orto, dopo un anno di disperazione e abbandono, ho pensato di ripartire da limiti e regolarità: non è comunque uno degli orti impeccabili ma si intravede un progetto con alcuni punti fissi e certi. Pacciamatura un filo più accurata – ci cresce lo stesso l’erba, nel mezzo, ma intanto è diminuita la gramigna e sono aumentate altre erbe, fra cui il farinello –; spazi divisi in modo regolare e file, anche se sempre storte, basate sui multipli di tre (perché? non lo so, in realtà, ma mi rassicurava): diciotto piante di pomodori di sei varietà diverse, sei piante di zucchine e altrettante di melanzana, quindici di fagiolini del mese scorso, altri quindici da seminare questo mese (quante ne spunteranno lo sapremo solo fra un po’), dodici cipolle rosse e sei piantine di basilico, che intervallano i pomodori perché dice (chi?) che è bene coltivarli vicini, undici piante superstiti di piselli in ritardissimo su tutto e che rompono la regolarità con un numero primo, perché poi alla fine ci vuole, altrimenti la noia, la noia, signoramia.
Sono loro, probabilmente, le più belle del campo: sono poche, sono in ritardo, svettano verso l’alto incuranti degli schemi, perché alla fin fine quegli schemi devono servire come appoggio, come sostegno per andare verso l’alto, senza filare dritti ma contorcendosi, girando anche in tondo, con dei riccioli, dei fronzoli da rampicanti, con le pause per i bei fiori, per le ramificazioni inaspettate, e chi lo sa magari anche un baccello fuori tempo massimo.
L’orto, gli esercizi di fantastica, questa newsletter che tenta di essere regolare nella sua irregolarità, le tracce, gli inviti: lo so, sono un gioco. Ma l’immaginazione non lo è: immaginare ci serve, è l’abilità più importante che abbiamo, immaginare un cambiamento è cominciare a farlo accadere. Immaginare un futuro possibile è spostarlo dal regno dell’impossibile per metterlo nell’orizzonte del reale. Cominciare a vederlo da qui.
Rubo alcune parole a un post di Ferdinando Cotugno:
Il presente è una scatola nera consegnata al futuro, conterrà le tracce di tutto quello che abbiamo ignorato e di tutto quello che abbiamo considerato importante.
Perché domani e dopodomani ci sono le elezioni europee, e i risultati di queste elezioni faranno parte della storia ufficiale, prima o poi, ma dentro quella storia ufficiale c’è quella personale, di chi ha scelto di ignorare qualcosa e di dare importanza a qualcos’altro.
Ecco, allora se questo voto fosse un esercizio di fantastica lo descriverei così: prova a pensare a cosa è importante per te e cosa può essere lasciato indietro, cosa, in questo incasinatissimo momento storico può essere rimandato al futuro e da cosa, invece, può dipendere l’idea stessa di futuro.
La crisi climatica è difficile da pensare e da maneggiare perché possa stare naturalmente nella nostra immaginazione, troppo grande e troppo complessa perché l’impegno politico possa sembrare anche solo minimamente adeguato alla sfida, troppo lenta nelle sua manifestazioni perché possa avere facilmente attenzione, e mantenerla nel tempo.
Attenzione, tempo, attivismo, impegno politico sono elementi di cui disponiamo in quantità fortemente limitate - eccoli i limiti, la cornice dentro cui stare – perciò adesso valuta: stai dedicando attenzione alle cose che ritieni importanti? Ci sono cose che metteresti fra quelle da lasciare indietro e che invece ti sottraggono tempo ed energie?
E infine: c’è, in queste liste per le europee, chi ha dato, nei suoi programmi, spazio, tempo, attenzione alle cose che ritieni importanti?
Possiamo immaginare un’Europa molto diversa, ma la cornice del reale ci impone di calarla dentro le proposte di queste elezioni: saranno approssimative, saranno piene di buchi e difetti, ma non sono tutte uguali, non è vero, non è indifferente la scelta fra una o l’altra, non lo è mai.
Uno sforzo di fantastica è anche immaginare un ponte fra i desideri e il materiale di partenza, un cammino fra l’idea di un miglior futuro possibile e il presente: inventare le tappe di questo cammino, preparare i bagagli con riserve di fiducia da usare nei giorni neri, essere pronti alle deviazioni, all’imprevisto, alla pausa di bellezza, ai numeri primi, ai riccioli e ai giri in tondo; prepararsi a un cammino da rampicanti e non da velocisti: ecco, forse questo è l’esercizio che richiederà tutta la fantasia di cui siamo capaci.
Mentre guardo le persone muoversi intorno a me
di Veronica Galletta
Quando andavo a scuola si facevano ancora le cornicette. Non amavo molto fare le cornicette, le aste, le farfalle. Le ho sempre trovate noiose. Un esercizio frustrante, in cui il mio desiderio di precisione veniva continuamente messo alla prova dalla debolezza della mia mano, che tracciava sghemba, imperfetta. Chiariamoci, non c’era nulla che non andasse in me, nulla di definitivo o clinicamente accertabile. Nulla che si potesse accertare dal mio tratto, mettiamola così, dalle mie farfalline diagonali o dalle cornici intrecciate come brutti maglioni invernali. Solo, era l’esperienza con la finitezza, con l’impossibilità di farmi macchina, che mi provocava quel disagio. Tanti anni dopo ci avrebbe pensato autocad a tirarmi fuori da quell’impaccio, anche se adesso rimpiango le ore passate a disegnare, a passare a china, a finire le tavole, quel silenzio notturno e inviolabile che si faceva calma, e meditazione. Allora forse mi tocca riformulare, e quindi precisare che era l’esperienza collettiva, la coercizione della maestra, il contorno che non creava alcun senso, a mortificarmi in quel modo. Adesso penso al contrario che all’interno del limite, dello schema, della ripetizione, si possano svolgere i migliori esercizi, che dalla costrizione nasca la creatività.
Lo penso stamattina, sulla mia sediolina a righe. Di fronte a me la ringhiera in tubolare verniciato di blu delimita il piazzale con gli ombrelloni, lo separa dall’accesso al mare. Sono arrivata presto, nonostante il tempo nuvoloso e il vento leggermente fresco. Sto sdraiata, leggo, guardo la ringhiera. Mi fisso su un riquadro, osservo cosa si vede attraverso. Da un’angolazione, dall’altra. In fondo non dico né penso niente di originale. Guardare fuori dalla propria finestra, secondo un Conrad seppure apocrifo, per interessarsi al mondo. Decidere però per scoprirlo un luogo preciso, stretto, delimitato, e avere fiducia che dentro a quel riquadro passi tutto quello che è necessario per la vita di me scrittrice, per raccontare e inventare storie. Mettere in moto l’immaginazione lasciando che vaghi, mentre sdraiata sulla sedia, le gambe avanti, le braccia indietro, abbandono il corpo e con lui la mente. Leggere, prendere un appunto, orecchiare una conversazione dietro di me (37 anni che siamo separati; 37 anni che le pago gli alimenti; la libertà ha un prezzo), osservare il tatuaggio al polpaccio del bagnino (un fuoco? o forse una pianta?) guardare la vita che si muove intorno, fiduciosa che l’immaginazione può più di quanto la razionalità non controlli. Le idee fluttuano sulla mia testa come il drago Falkor de La storia infinita. Mi basta allungare una mano per carezzarle.
È solo il terzo giorno che passo qui all’ombrellone n. 20 dei Bagni Ex della mia città, nella prima estate che ho deciso di passare quanto più possibile ferma, infiltrata in questo microcosmo che vive di vita propria da sempre. Sto qui, sola, tutta vestita di nero, senza parlare con nessuno. Sono un’osservatrice, non posso interferire con la biosfera. Sono un’entomologa, il mio compito è registrare i fenomeni. La signora con gli occhiali da sole enormi, arriva trascinandosi dietro il suo lettino. Ha la psoriasi, dice, deve trovare un buon posto al riparo dal vento. La signora bionda dal costume giallo invece fa avanti e indietro dalla punta del piccolo molo, perché lei dice il bagno lo vuole fare lo stesso, non importa che si sentano i primi tuoni, e di fronte grandi nuvole a mensa scarichino il loro bottino sulla Gorgona. Il signore con il bastone che procede lento. Gli manca un braccio, ma sembra poterne fare a meno, al contrario dell’acqua. Scende i pochi gradini con circospezione, solo per sedersi con i piedi a mollo. C’è tutto quello che serve, penso, penso, mentre guardo il mondo dal riquadro della ringhiera. Due montanti, due elementi orizzontali, e quello che ci sta dentro.
Al largo un uomo con la muta nuota lento. Emergono ogni tanto il braccio e la testa, la muta nera con una banda rossa. È partito dalla spiaggetta a nord e ha doppiato il capo, eccolo a sud, nel piccolo bacino delimitato dalle boe. Son tutte rosse, tranne una bianca. Speriamo che si avvicini a una scaletta ed esca dall’acqua, penso, adesso nuota fin quasi sotto alla mia sedia a righe (non fanno questo le storie? non vengono a leccarti i piedi? a tirarti i calzoni come cagnolini impazienti di uscire?) e invece curva e curva ancora. Circumnaviga questo piccolo bacino a forma di fagiolo, e poi si allontana di nuovo, verso la punta del molo. È la testa dello struzzo, ma questo è un segreto solo mio.
Chiudo gli occhi e mi abbandono alle parole del romanzo che ascolto. Ascolto il mio romanzo. Elinor Dammert compie una vendetta tremenda, sulle sponde del fiume Perdido. Ne sono felice, quell’uomo se lo meritava. Chiudo gli occhi e penso alla lettera che vorrei scrivere all’uomo con la muta. Il romanzo epistolare era il genere più diffuso a metà del settecento, così ho appena letto in un saggio di Franco Moretti. Poi c’è stato il gotico, lo storico, e tutta una serie di generi dalle definizioni che neanche conosco. Il chartist novel, il silver fork novel. Vorrei scrivergli una lettera, ma non è il mio genere. Il mio genere è fantastico, ma non perché io voglia iscrivermi per forza da qualche parte, sono come Groucho Marx io, diffido di un club che accetterebbe me come socia, per questo sto qui tutta vestita di nero seduta su una sediolina senza parlare con nessuno. Il mio genere è il fantastico, perché questo faccio mentre guardo le persone muoversi intorno a me.
Prendiamo il nuotatore con la muta, per esempio. E se uscendo dall’acqua fosse un lungo coccodrillo, una creatura come quella de La forma dell’acqua? E se invece entrando in acqua al signore con il bastone ricrescesse il braccio? E se la psoriasi della signora con gli occhiali enormi si materializzasse e cominciasse a saltare, come tanti nerini del buio? E se, dopo 37 anni, il signore che ha scelto la libertà scoprisse che l’ex moglie è morta, e con il suo assegno di mantenimento si mandano messaggi al mondo extraterrestre? Chi manca fra quelli che ho visto stamattina? Il tatuaggio del bagnino, le righe del vestito bon ton della signora con la piega in ordine, che litiga con il marito in maniera stanca. E se vietassero i tatuaggi, cosa farebbe il popolo di Livorno? E se il marito della signora a righe fosse immaginario? Inventato? Invisibile? In fondo lei litiga e lui non risponde. Non è questa la definizione di uomo immaginario?
Ecco allora l’esercizio di fantastica per le vostre giornate al mare. Classificate i vostri vicini di ombrellone. Ognuno di loro ha una storia da raccontare, e se così non fosse, ci sono sempre i coccodrilli, le mani che ricrescono, le malattie saltellanti e i mariti invisibili che possono venirvi in soccorso. Per non parlare dei soldi spesi per mandare messaggi d’amore nello spazio. Quelli, si sa, sono sempre i migliori.
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Veronica Galletta è nata a Siracusa e vive a Livorno. Con Le isole di Norman (Italo Svevo Edizioni 2020) ha vinto il Premio Campiello Opera Prima. Con Nina sull’argine (minimum fax 2021) è stata finalista al Premio Strega e ha vinto il Premio Letteratura d’Impresa. Con il testo Pelleossa è stata finalista al Premio Neri Pozza per opere inedite.
Anche per stavolta è tutto: grazie.
Braccia Rubate torna con Sentieri, l’edizione del plenilunio a cura di Maria Claudia, con la luna piena del solstizio d’estate, il 21 giugno.
E poi, come ci dicevamo all’inizio, ci saluteremo prima della pausa estiva con il quaderno degli esercizi di fantastica per il novilunio del 5 luglio.
Nel frattempo, se ti va di mandarci un saluto, scrivi a bracciarubatenewsletter@gmail.com.
Buona immaginazione,
Barbara
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