La luna si fa nuova intorno a mezzanotte
Con la luna nuova di febbraio parleremo di territorio, di spazi, di luoghi: Alessandro Chiappanuvoli proverà a smontare le retoriche che spesso accompagnano il racconto dei paesi, mentre Carmela Fabbricatore ci guiderà nel rifasare lo sguardo, dimenticando un senso estetico imposto, per guardare il margine con occhi puliti.
E con l’attenzione alle parole-truffa, alla retorica che svuota di significato il linguaggio, e l’allenamento a un nuovo sguardo, possiamo forse provare a smontare un’altra mistificazione: quella delle proteste degli agricoltori, che alimentano la nuova ondata anti-ecologista che si sta alzando in vista delle elezioni europee. In quello che doveva essere il diario dell’orto, per questo mese parleremo della strumentalizzazione delle proteste e di convergenze auspicabili. Perché la crisi dell’agricoltura ha molto a che fare con i nostri luoghi, con le aree interne, con l’abbandono e il restare.
Le retoriche che popolano i paesi
di Alessandro Chiappanuvoli
Gagliano Aterno
Abbiamo bisogno, per salvarci, per salvare la specie, se siamo ancora in tempo, di una grande rivoluzione culturale, morale, di rigenerare i luoghi e i cuori, di un nuovo vocabolario, di nuove parole, di nuove pratiche.
Vito Teti
Da sempre il mondo è affollato di dicerie, leggende, proverbi, massime che contribuiscono da un lato a rendere fruibili conoscenze tecniche e concetti complessi e, dall’altro, rischiano di banalizzare quella stessa complessità così difficile da padroneggiare. Qui le chiamerò genericamente retoriche.
Oggi, inoltre, che la velocità dell’informazione, la compulsione della condivisione e la mania dell’opinionismo dominano il dibattito pubblico, la situazione – e qui intendo la gestione del sapere – pare essere ancora più critica. Nuovi e accesi dibattiti spuntano come funghi, durano il tempo di qualche meme e approfondimento giornalistico e spariscono sopraffatti da nuovi e sempre più accesi dibattiti. Eppure, per quanto rapidi, questi dibattiti lasciano dietro di loro strascichi, rimasugli che troppo spesso più che germinare, contaminano, intasano lo spazio del sapere, e quindi della scelta, senza lasciare respiro alla riflessione, alla critica, alla contestualizzazione.
San Benedetto in Perillis
Vorrei portare a esempio il caso dei paesi, o dei “borghi”, come ormai pare si debbano chiamare quei piccoli posti lontani dalle città dove abita poca gente e non c’è mai nulla da fare. Ecco, è da un po’ di anni che si parla dei “borghi”, ancor più dal 2020, con la pandemia, quando si è iniziato a indicarli come vie di fuga per i cittadini dai congestionati centri urbani e persino come possibili poli di rilancio economico nazionale. All’improvviso i “borghi” sono entrati nel dibattito pubblico e hanno orientato anche decisive scelte politiche, come la destinazione di ingenti somme del PNRR – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che includeva, appunto, il “Bando Borghi”.
Ma non sono le questioni politico-economiche che qui interessano. A colpire sono proprio le retoriche, quei significati semplificatori e non sempre suffragati da studi o da dati che si diffondono a macchia d’olio influenzando tutto, tutti e tutte, dalle singole persone ai decisori istituzionali, a livello comunale, regionale e nazionale. Ne riportiamo qualcuna, allora, di queste retoriche. E partirei proprio dall’uso del termine “borgo”.
“Borgo” non è propriamente, o del tutto, sinonimo di paese. Pare venga dal germanico e significa “fortezza, luogo fortificato, castello, riparo”, oppure dal greco e significa “torre”. Ora, andrebbe pure bene che, in alcuni casi, ci si riferisca ai paesi chiamandoli borghi, sempre però che questi siano dotati almeno dei minimi elementi architettonici: cinta muraria, un castello, un centro fortificato. Ma la questione è ancor più spinosa. Il punto è che la parola “borgo” si è imposta per un nobile (e maldestro) tentativo di rilancio socioeconomico dei paesi, ma ha finito per essere strumentalizzata quando gli interessi economici, principalmente esterni ai paesi, si sono resi conto che con i paesi si potevano fare affari, in particolare con il turismo. La parola “borgo”, così, ha preso ad assumere un significato retorico ammaliante, estetico, superficiale, già rivolto al possibile turista (mordi e fuggi), al consumatore, iniziando a snaturare il senso dei luoghi prima nell’immaginario, poi con effetti concreti per le comunità che anzitutto vivono nei paesi.
Oggi lo scontro tra le parole “borgo” e “paese” è accesissima. I paesi iniziano a rifiutare l’etichetta e i borghi continuano ad acquisire quote di mercato turistico. Da un lato c’è l’etica e la sopravvivenza, dall’altro ci sono gli interessi e l’approssimazione (quando non proprio il dolo).
(Per approfondimenti: Contri di borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, AAVV, a cura di F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi, Donzelli Editore, 2022)
Civita D’Antino
Altra retorica direttamente connessa ai “borghi” è “il petrolio d’Italia è il turismo”, e quindi che anche i paesi si salveranno con il turismo. Solo con il turismo. Ora, questa retorica non è del tutto falsa, ma è possibile che si attui solo in alcuni paesi e solo a patto che non si snaturi completamente l’impianto economico del sistema paese, che invece è fatto anche di servizi, agricoltura, piccole attività commerciali, allevamento, artigianato, ecc. È possibile solo a condizione che il turismo (soprattutto dai connotati di massa) non diventi l’unica risorsa per un paese, ma una risorsa integrativa per l’intero sistema economico paesano. Del resto, basta osservare gli effetti che scelte politiche ed economiche rivolte solo al turismo stanno creando nelle più note città italiane e mondiali per capire che nei paesi scelte simili, non mediate con la comunità e con la vita vera dei paesani, possono causare danni ancora più radicali. Firenze, Barcellona, New York e Venezia stanno smettono di essere centri abitati fatti e pensati per gli abitanti e stanno diventando sempre più luoghi fatti e pensati per i turisti, per gente che viene, paga e va via. Per il bene dei paesi, invece, servirebbe una specifica forma di turismo, e questa forma di turismo dovrebbe essere condivisa con gli abitanti, e poi tutelata e non data in pasto alla prossima fetta di mercato. Come già avviene a Cerreto Alpi, Ostana, Sciacca, Gagliano Aterno, solo per fare qualche esempio.
(Per approfondimenti: Etica del turismo. Responsabilità. Sostenibilità, equità, Corrado Del Bò, Carocci Editore, 2017)
Capitignano
Una retorica tra le più belle, e che fa sorridere noi che ci occupiamo di paesi, è l’idea diffusa soprattutto tra i media che chi abita nei paesi o vi ritorna sia un resiliente, un resistente, un restante, insomma, un eroe. Chi abita nei paesi è un abitante, uguale uguale all’abitante che vive in Corso Buenos Aires a Milano o in Via Condotti a Roma. Con gli stessi diritti, gli stessi doveri, le medesime tasse. Diversi sono solo i benefici, che sono invece molto minori. Chiamare “eroe” un paesano o chi decide di trasferirsi in un paese non è solo offensivo per gente che davvero fa sacrifici per compensare ai servizi che lo Stato non eroga, ma è pure egemonico, è colonialista. È come accettare implicitamente che sia giusto esitano cittadini di serie A e di serie B. È come essere classisti. È come dire “io non sono razzista ma…”, per essere ancora più espliciti. Della pena e dell’ammirazione, poi, una persona discriminata nei fatti cosa se ne fa?
Ed ecco che qualche studioso prova a smontare quest’assurda opposizione tra cittadini e paesani, come per esempio fa Mauro Varotto in Oltre gli immaginari dicotomici: spazi di relazione e inversione dello sguardo (in Metromontagna. Un progetto per riabitare l’Italia, AAVV, a cura di F. Barbera, A. De Rossi, Donzelli Editore, 2021).
Potrei continuare a smontare altre retoriche che intossicano i paesi, ma va bene così. Ci siamo capiti. Mi congedo però con una sorta di premonizione che attanaglia me e tanti altri che studiano, vivono o lavorano per o nei paesi: è la sorte della parola “comunità”. Ecco, i bookmakers nei baretti di paese già stanno prendendo le scommesse, comunità potrebbe essere la prossima parola completamente travisata dal suo significato originale (dai suoi tanti significati, è meglio dire) e fagocitata dai media, dalla moda, dal mercato e da qualche scellerata decisione politica. Staremo a vedere, abbarbicati sulle nostre torri medievali, in attesa di un nuovo slogan salva-borghi.
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Alessandro Chiappanuvoli è scrittore, poeta e reporter.
Osservare il limite
un esercizio di fantastica
testo di Carmela Fabbricatore
foto di Ilaria Parlato
Per lungo tempo ho guardato al paesaggio con occhi precipitosi, rapportando il bello o il brutto a un senso estetico che – ho scoperto poi – essere frutto di un immaginario imposto. Trovavo bella la campagna solo se idilliaca, le città gradevoli solo se rispondenti all’uniformità di uno stile architettonico o a un rigore nell’organizzazione degli spazi.
Il mio sguardo, selettivo in modo manicheo, identificava il brutto associandolo a ciò che mi sembrava fuori posto o disarmonico, in sottrazione a un bello fortemente idealizzato.
Questo modo di concepire il territorio mi portava, in automatico, a rifiutare il “paesaggio brutto” e a ridurlo non solo a un giudizio negativo (che obbrobrio quei palazzi, che degrado quella zona), ma anche a escluderlo, da tutto: dalle mie frequentazioni, dalla considerazione in un discorso, da una riflessione critica. Semplicemente, non esisteva se non nella misura della lamentela, e di un certo rammarico.
Se ci penso bene è proprio questa continua operazione di “scarto dello sguardo” che ha portato le comunità, nel tempo, ad accumulare i rifiuti territoriali e posizionarli ai margini, come se l’incuria fosse una risposta automatica alle cose poco piacevoli. Quando parlo di rifiuti territoriali mi riferisco, in particolare, al residuo inteso come uno spazio che non è una riserva naturale, non è un terreno a maggese e non corrisponde a nessun sistema di gestione dichiarato tale (G. Clément, Il giardino in movimento). Non solo, rifiuti territoriali sono anche quei luoghi periferici, dove la trascuratezza impera: la provincia urbanizzata o lo sprawl, la “città diffusa o infinita” (Treccani) costituiti da frammenti di paesaggio agricolo, blocchi di quartieri residenziali e insediamenti lontani da infrastrutture.
In un celebre scritto, Rainer Maria Rilke dice che l’arte del paesaggio si elaborò faticosamente e nelle mani di solitari, perché difficile era disabituarsi tanto dal mondo da non guardarlo più con l’occhio prevenuto di chi vi è nato, attento a riferire tutto a sé e ai propri bisogni (R. M. Rilke, Del paesaggio). Per Rilke, dunque, l’individuazione del sublime nel paesaggio si realizza nel momento in cui l’uomo si disancora da esso (Così, fu necessario allontanare le cose da sé per essere poi capaci di accostarle con modi più giusti e pacati, a rispettosa distanza e con minore confidenza).
La sua analisi era volta a tracciare un excursus del rapporto uomo-paesaggio in relazione all’opera d’arte, pensando a quest’ultima come sintesi tra esteriore e interiore, come lo spazio ininterrotto in cui, arcanamente protetto, resta un solo punto di purissima, profondissima coscienza. Leggendo queste pagine ho pensato che è esattamente in questo duplice esercizio, di disancoramento da sé e di pratica di profondissima coscienza, che si potrebbe trovare la strada per educare lo sguardo a un diverso modo di osservare i luoghi che abitiamo. Lo scopo è imparare a identificarne il pathos, presente o ereditato dalla Storia, a ridefinire il bello in rapporto a una diversa scala di valori, che comprenda anche le promesse non mantenute, quelle avanzate dalle false annunciazioni di progresso degli ultimi due secoli.
Narrazioni dello spazio liminale
Un primo passo per rifasare lo sguardo potrebbe consistere nell’osservare il territorio “al negativo”, rovesciare cioè i codici visivi convenzionali per riflettere sugli spazi liminali abbandonando una prospettiva puramente antropica. A tal proposito, ne Il giardino in movimento, Gilles Clément lascia delle utili coordinate:
Nel processo evolutivo dello spazio antropizzato il residuo appare come un tempo morto dell’occupazione del suolo, in attesa di trovare presto una destinazione redditizia. Nel processo evolutivo biologico il residuo appare come un tempo pieno di attività del vivente, in grado di generare un giardino, una foresta, una passeggiata, una riserva ecologica o tutto questo al contempo.
Pensare agli spazi residuali come generatori di (bio)diversità è una premessa che trova completamento nell’elaborazione di un nuovo senso di appartenenza ai luoghi, in base al quale l’attenzione agli spazi trascurati e in abbandono è anche attenzione alle storie in esso contenute, alle vicende cancellate e alle voci inascoltate. Tutto questo richiede una capacità di osservazione che va al di là della contemplazione e che dovrebbe piuttosto tendere alla compenetrazione.
Riflettere sugli spazi marginali significa anche ridefinirli. Pensiamo alle periferie: superata la definizione univoca di hinterland come di retroterra radiocentrico, dipendente da un centro economico più ricco, le aree ai margini oggi si presentano generalmente come un’estensione del territorio edificato, dove non vi è una demarcazione chiara tra ciò che è urbano e ciò che non lo è, tra territorio agricolo e costruito. Le aree marginali sono spesso identificate come spazi disorganizzati e privi di identità, ma che a ben vedere presentano delle specificità strettamente legate alle condizioni, alla storia della realtà urbana che le ha prodotte, e quindi difficilmente riconducibili a modelli omogenei d’interpretazione.
C’è, da qualche parte, chi prova a far emergere narrazioni più autentiche che sottolineano il valore degli spazi marginali identificandoli come naturali collettori di diversità.
È quanto sta provando a fare, per esempio, il movimento Hinterlands, un collettivo internazionale che raccoglie contributi e punti di vista dalle regioni rurali dell’Europa, avvalendosi di una rete di collaboratori provenienti da diversi settori. The hinterlands are not one but many, si legge nel manifesto, in cui si afferma anche la volontà di liberarsi di narrazioni pregiudiziali, semplicistiche e romantiche che spesso dominano la percezione comune delle aree rurali. A prescindere dalla loro estensione o definizione, ciò che emerge da queste narrazioni condivise è che spesso gli spazi di risulta sono sintomo di una fragilità del territorio, che diventa di riflesso fragilità di chi lo abita. Ai vuoti fisici (mancanza di strutture, di risorse, di spazi a misura d’uomo) corrisponde il vuoto delle politiche di valorizzazione, che tendono ad essere basate sulla massimizzazione del rendimento del suolo a metro quadro. Un principio, questo, che premia progetti di sviluppo basati sulla cieca applicazione di modelli scalabili e standardizzati, che non tengono conto delle specificità delle aree interessate. Al contrario, essi si affidano a una narrazione del “bello” fortemente influenzata da un’estetica pronta per il consumo (riconducibile, ad esempio, al pittoresco forzato dei borghi o alla patina manierata delle riqualificazioni di lusso). Tutto questo non fa altro che mascherare la verità dei luoghi dietro una narrazione finta, fatta per soddisfare un’aspettativa da cartolina.
Ecco perché sarebbe auspicabile sostituire alle politiche verticali di cieca massimizzazione del profitto (a vantaggio di pochi) sistemi di rigenerazione dal basso fondati sulla rete di comunità che abitano il territorio. Anche qui, però, bisogna procedere con cautela: sempre più spesso le pur nobili azioni dei collettivi e delle associazioni si scontrano e si confondono con interessi più grandi, e non è raro che essi siano spesso vittime inconsapevoli di strumentalizzazioni. Che si tratti di riqualificare periferie di città o di valorizzare la provincia rurale, il problema centrale è da porsi sempre sul piano della prospettiva, sugli obiettivi che si nascondono nello sguardo di chi osserva, sul grado di partecipazione delle comunità interessate. Per questo, anche quando si parla di rete bisogna adeguare lo sguardo, cogliere sempre, in ogni progetto, una componente di umanità e soprattutto di cura.
Gesti radicali
Sono partita da questo tipo di astrazione per provare a guardare diversamente al mio luogo di origine, una provincia meridionale che i più anziani guardano come un’Arcadia perduta. Sono gli ultimi ad avere la memoria di un territorio che prima delle speculazioni edilizie era una campagna-giardino, e che ora è invece è un cumulo di cemento e di luoghi di risulta, uno di quegli spazi dove si respira aria di solitudine urbana (Celati). Ho parlato di queste cose con Ilaria, un’amica architetta e fotografa, che condivide con me il senso di sfasamento dei luoghi, per capire se sia poi davvero possibile superare quest’inviluppo tra politiche scellerate e narrazioni comuni distorte.
Il vero gesto radicale – dice Ilaria – che va oltre l'esercizio di collezionare i vuoti in attesa che fioriscano a dovere secondo dettami di una estetica culturale preconfezionata, è imparare a ricostruirne le tracce, evidenziando le relazioni umane e non, il contesto, i nessi socio economici oltre che spaziali, le storie, le omissioni, i tagli della trama e tutto quanto interviene a deviare la narrazione dall'asse del vero. Laddove si tenta di focalizzare lo sguardo sull'opera, sul monumento, sull'esemplare meglio riuscito delle bellezze del creatore (sia esso, rigorosamente, uomo, macchina o divinità) c'è miopia. Bisogna cercare di rintracciare il limite e interrogarlo. Bisogna cogliere la complessità, chiamarla a raccolta perché si esprima con linguaggi diversificati ma testimonianti, contro le narrazioni dominanti. Bisogna restituire parola.
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Carmela Fabbricatore si occupa di letteratura e progettazione culturale.
Altri scatti di Ilaria Parlato si trovano qui.
Diario di una transizione agricola
La foto viene dalla Cascina Bosco Fornasara: ospiti del numero 32, rappresentano bene che è possibile fare agricoltura in modo sostenibile e rispettoso dell’ecosistema, che l’alternativa esiste e che sono molte le aziende che la portano avanti.
Queste settimane di proteste hanno come primo merito l’aver portato all’attenzione un aspetto messo costantemente ai margini nei discorsi sulla transizione ecologica: tutta la filiera agroalimentare sembra solo uno dei tanti fronti della sfida posta dalla crisi ambientale e, anzi, dal peso che le viene dato nelle varie COP, nell’informazione e, spesso, anche dai movimenti ambientalisti, sembra in realtà uno dei fronti secondari.
Come abbiamo fatto a relegare il cibo a questione marginale? Quanto dovrebbe invece essere più importante evitare che gli effetti della crisi climatica rendano sempre più elitario l’accesso a un’alimentazione sana? Quanto è più importante assicurarsi che una, necessaria, transizione ecologica nel settore agroalimentare non ricada per intero né sulle spalle degli agricoltori né su quelle dei consumatori, ma venga condivisa in modo equo e giusto?
Anche nel mezzo della confusione e dei tentativi della politica di appropriarsi dei temi e mistificare le proteste – un nuovo, sempre più feroce, attacco all’ambientalismo che come al solito sfrutta rabbia, ansia e paura delle persone –, e al netto della prevalenza di un certo mondo che viene dritto dai forconi e dall’estrema destra, non si possono ignorare i punti critici che stanno mettendo in luce i trattori scesi in strada. Non possiamo prendere tutto e metterlo nel calderone del populismo, perché fare di questa la protesta univoca e compatta contro le misure ecologiche, come ci viene raccontato e come fa molto comodo e chi è sempre stato contro quelle misure, è pericoloso.
L’agricoltura è il settore più colpito dagli effetti della crisi climatica: siccità, eventi meteorologici violenti, caldo estremo o gelate tardive diminuiscono, stagione dopo stagione, le rese, moltiplicano i danni, a volte distruggono intere coltivazioni; di fronte a questa evidenza, non si può lasciare che gli agricoltori affrontino da soli le conseguenze di una crisi sistemica, anche perché il loro è un settore fondamentale, non si tratta di salvare delle aziende o dei posti di lavoro, ma l’accesso al cibo di tutti.
Anche i negazionisti della crisi climatica sanno che non possono negare i suoi effetti davanti agli agricoltori, perché chi coltiva la terra sa benissimo cosa sta accadendo. Lo misura anno dopo anno, lo vede nelle rese sempre più basse, nella mancanza d’acqua, nelle invasioni di insetti e di patologie nuove, nelle grandinate violente e nelle alluvioni, nelle stagioni impazzite.
Ad aggiungersi a questi danni ci sono gli aumenti delle materie prime – il gasolio e i fertilizzanti chimici, su tutti – senza che a questi aumenti delle spese siano corrisposti degli aumenti dei prezzi di vendita dei prodotti agricoli, che anzi sono rimasti troppo bassi e non stabiliti da chi produce quei prodotti ma dalla grande distribuzione e, per certi beni che hanno smesso di essere cibo reale ma sono diventati delle commodity, dalla borsa.
Il risultato è che nel comparto agricolo i redditi sono fra i più bassi e che, solo nel nostro paese, mezzo milione di aziende agricole sono scomparse fra il 2010 e il 2020 (sì, eh, non ho sbagliato: 500.000, secondo il 7° censimento generale dell’agricoltura dell’Istat).
Se potessimo seguire la logica lineare di un problema di geometria della scuola media, la soluzione sembrerebbe intuitiva: favorire una filiera corta e le aziende di piccole dimensioni, e pratiche che limitano l’uso del gasolio e dei prodotti chimici, per ridurre la dipendenza degli agricoltori dalle oscillazioni dei prezzi di queste materie prime, e che sarebbero utili anche a limitare, col tempo, gli effetti dei cambiamenti climatici, perché si ridurrebbero le emissioni non solo della CO2 ma anche del protossido d’azoto, gas 310 volte più impattante, la cui presenza nell’aria è dovuta principalmente all’uso dei composti azotati in agricoltura (in compenso, è il gas esilarante, perciò, insomma, sì, probabilmente sarà dovuta a lui La Famosa Risata Che, eccetera eccetera).
Ma il mondo politico-economico reale non somiglia a un problema di geometria, somiglia più a John Travolta che balla il Ballo del qua qua in mezzo a degli adulti vestiti da papera gialla.
Perciò la soluzione lineare non la stiamo prendendo, e ci stiamo incartando in un misto di demenzialità e consapevole sfruttamento politico del malcontento in vista delle elezioni europee.
Bisogna dire però che la transizione (agro)ecologica ha un costo e nonostante la PAC, la politica agricola comune europea, preveda fondi per 386 miliardi di euro che dovrebbero servire anche a sostenere il green deal in ambito agricolo – in particolare nelle due linee strategiche principali, la farm to fork e quella di protezione della biodiversità – il sistema di ripartizione di questi fondi da un lato (in cui vengono privilegiate le aziende più grandi), e gli obblighi da assolvere per accedere ai sussidi dall’altro (e la trafila burocratica imponente), la rendono oggetto di forti (e giuste) critiche: è una politica che privilegia la produttività, le grandi dimensioni, la grande agroindustria, e non risolve le questioni relative alle storture della filiera e delle politiche del prezzo.
Quei fondi dovrebbero servire proprio per sostenere una transizione e per garantire la sicurezza alimentare mentre questo cambiamento avviene, sono il capitolo di spesa più importante dell’unione europea, può essere perfezionato il metodo di ripartizione, ma non si può pensare che rimangano i sussidi senza gli obblighi, anche perché, con un parallelo abbastanza facile con il fondo loss&damage – cioè quel fondo che dovrebbe coprire i danni e le perdite causate dagli effetti dei cambiamenti climatici – se non si lavora anche alla mitigazione, e quindi in questo caso, se il sistema agricolo non esige solo sussidi senza lavorare alla transizione in modo da cambiare rotta, non ci saranno mai abbastanza fondi per coprire i danni di un clima totalmente fuori controllo.
Se gli argomenti contro l’Europa piacciono molto alla destra che sta provando a strumentalizzare queste proteste per indirizzarle contro le politiche ambientali, c’è un punto che rimane il cuore e che dovrebbe essere quello su cui possono convergere anche i movimenti ambientalisti: la crisi del settore agricolo è una crisi sistemica che racconta
la fine di un modello produttivo basato sull’iperproduzione e l’iperconsumo, con la riduzione all’osso dei costi e dei redditi da lavoro (c’è da segnalare che in altri paesi, come la Francia, quella convergenza sembra più possibile che da noi).
Il lavoro va pagato il giusto prezzo, perché pagare il giusto per il lavoro significa poi che quegli stipendi renderanno possibile alle persone pagare il giusto prezzo per il cibo (insieme a una politica per un reddito universale garantito). Ci siamo invece avvitati in un circolo disastroso per cui stipendi sempre più bassi permettono di vendere il cibo – agli altri prodotti e servizi – a prezzi sempre più bassi, che sono gli unici che puoi permetterti con uno stipendio basso (di nuovo, eccolo, c’è John Travolta con le papere).
Rimandare ancora le misure ecologiche, come la riduzione dei fitofarmaci o le pratiche a tutela del suolo, per contenere dei costi già ridotti all’osso significa continuare a ignorare che i costi ambientali ci sono lo stesso, e se non li mettiamo nel prodotto ma li scarichiamo sull’ambiente, presenteranno il conto come stanno facendo.
Bisogna ammettere che quel tipo di modello economico è finito, è insostenibile, è basato su un’abbondanza illusoria e ipocrita, e che andare a trasformare radicalmente questo sistema è l’unico modo per salvare non solo il settore agricolo, ma la stessa vivibilità del pianeta.
E mentre stiamo discutendo di rimandare le misure ambientali per contenere i costi della produzione agricola, la GDO – la grande distribuzione organizzata – continua ad aumentare i ricavi (+6,8% nel 2023 rispetto all’anno precedente). Mentre stiamo dicendo che forse se continuiamo a dare sussidi per il gasolio utilizzato in agricoltura e se rimandiamo ancora per qualche altro anno l’obbligo di destinare il 4% della superficie coltivabile al ripristino degli ecosistemi forse forse i grandi gruppi di supermercati potranno continuare a comprare sottocosto i prodotti agricoli rivendendoli anche a dieci volte il prezzo d’acquisto, potranno continuare a mandare avanti un modello agroindustriale che schiaccia i piccoli, schiaccia l’ambiente, schiaccia la nostra salute, quella dei suoli, gli ecosistemi, la disponibilità di acqua dolce, il nostro futuro. Quanto può durare ancora? Gli allarmi lampeggiano da decenni, stiamo mantenendo in vita un sistema che è morente grazie ai sussidi, al lavoro sottopagato e allo sfruttamento estremo delle risorse naturali. Il malcontento degli agricoltori può essere indirizzato per ottenere un’ultima proroga a quest’accanimento terapeutico, oppure può convergere con chi vuole avviare una transizione vera – certo gradualmente, certo con il supporto di fondi appositi – che non solo cambi i metodi, che non preveda solo misure specifiche, ma che sia l’input per un cambiamento sull’intera filiera, sull’intera sistema economico.
Quel che è stato per anni un modello di agricoltura industriale partito dalla rivoluzione verde – c’è mai stato un nome tanto disonesto? – mostra i suoi limiti e il suo volto più feroce come, insieme, lo sta mostrando la globalizzazione spinta verso cui ci siamo buttati senza paracadute.
Ora la destra di casa nostra sta provando a prendere i temi di chi lotta contro l’agricoltura industriale – la Via Campesina e il mondo contadino organizzato in generale – e di chi protestava contro la globalizzazione, scimmiottandoli e prendendo la sovranità alimentare dei primi e riducendola a una specie di slogan del marketing del Made in Italy, e il concetto di giustizia globale contro il liberismo spinto della finanza dei secondi, che diventa un protezionismo autarchico antieuropeo.
Quei temi vanno riportati al loro valore originario, pieno, democratico, giusto.
Perché la transizione necessaria non è solo “aggiustare” le singole pratiche in un’ottica più sostenibile – dimezzare l’uso dei pesticidi, decidere quale percentuale dei campi vada o no coltivata, mandare i trattori a biocarburante invece che a gasolio – ma accettare che c’è un cambiamento improrogabile, di cui ciascun settore deve farsi carico e che può comportare anche stravolgimenti radicali per alcune attività. Gli allevamenti intensivi sono insostenibili, non basterà agitare lo spauracchio della carne coltivata, dei “cibi sintetici” o della perdita delle nostre Sacre Tradizioni (io amo le tradizioni, amo la memoria, sono una nostalgica, e no, dei maiali stipati dentro dei capannoni imbottiti di antibiotici non fanno parte di alcuna memoria contadina, e no, non ne fa parte nemmeno quell’abbondanza di carne incellophanata venduta anche a 4,99 euro al chilo, messa a tavola ogni giorno).
Manca l’acqua, stiamo attraversando una crisi idrica senza precedenti, che la scorsa estate è stata meno critica grazie alle provvidenziali piogge di maggio ma che non potrà che peggiorare di anno in anno, non possiamo più permetterci coltivazioni ad alto fabbisogno idrico – come il mais – e di quel che ne deriva, come i mangimi per gli allevamenti e, quindi, gli allevamenti intensivi (che non possiamo più permetterci anche per tutta una serie di conseguenze ambientali, di emissioni e di smaltimento dei liquami, sanitarie, per il costante rischio pandemie, senza nemmeno entrare nelle questioni etiche). Tutto questo, indipendentemente da quello che vogliamo fare o meno. Non possiamo continuare a coltivare in modo intensivo ignorando che lo sfruttamento estremo del suolo comporta la sua desertificazione e compromette le possibilità future di produrre cibo, non possiamo quindi calcolare la resa su base annua senza considerare la resa possibile in un arco di tempo molto più lungo; non possiamo ignorare che distruggere gli ecosistemi comporta conseguenze su tutti, umani e non, e non possiamo continuare a considerare le politiche ambientaliste come orpelli inutili, voluti da gente che vuole sentir cantare gli uccellini e raccogliere fiori in campagna: le politiche ambientaliste servono a mantenere aperta la possibilità di un pianeta vivibile. Mantenere aperta la possibilità della sopravvivenza. Di fronte a una questioni di pura sopravvivenza, non c’è protesta dei trattori che tenga: è chiaro che chi vede crollare un certo mondo, il suo, si agiti e si opponga, ma la scelta è fra far crollare un certo tipo di mondo o assistere al crollo del mondo di tutti.
Al tempo stesso, l’ambientalismo e la parte di politica più sensibile a quei temi (non si sa bene nemmeno più come chiamarla) non possono più ignorare il comparto agricolo, la filiera del cibo, e le questioni che pone. Gli agricoltori possono essere la chiave di un cambiamento davvero radicale, se ancora lo crediamo possibile, possono passare a essere veramente i custodi di alcuni servizi ecosistemici. Il nostro ambiente non è più naturale, non è più incontaminato, non lo è da decenni, non abbiamo foreste vergini, non abbiamo territori che non hanno mai conosciuto la mano dell’uomo. Abbiamo territori in cui convivono attività umane e ambiente naturale, gli agricoltori possono farsi garanti di una collaborazione virtuosa, sostenibile, possono avviare una gestione sana dell’acqua, soprattutto con lo spettro incombente della siccità, estate dopo estate, del suolo, della biodiversità. Gli ambientalisti hanno bisogno degli agricoltori, e gli agricoltori hanno bisogno che le lotte ambientaliste non subiscano ulteriori rallentamenti, hanno anzi bisogno che la lotta ai cambiamenti climatici proceda spedita, se vogliono avere una minima possibilità di continuare a coltivare la terra, tenendo l’aumento delle temperature sotto la soglia del collasso.
In questa collaborazione si intravede una soluzione – non lineare come la risposta a un problema di geometria, ma nemmeno imbarazzante come un siparietto sanremese – una soluzione che contiene in sé il continuare a credere che la finestra per il possibile sia ancora aperta.
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Per approfondire, oltre ai link inseriti nel pezzo, rimando alla rassegna stampa che sta raccogliendo l’associazione Terra!.
Anche per stavolta è tutto: grazie.
Braccia Rubate torna con Sentieri, l’edizione del plenilunio, a cura di Maria Claudia, il 24 febbraio.
Se ti va, scrivi a bracciarubatenewsletter@gmail.com: raccontaci quale retorica hai smontato oggi, come hai rovesciato lo sguardo, come hai risolto il tuo problema di geometria, come proteggi la ragione in questi tempi folli.
Quack,
Barbara